L’affanno, l’angoscia, lo smarrimento, la follia: “Memorie di un pazzo”, il racconto di Gogol adattato per il teatro da Roberto Lerici, rivive sul palco del Teatro Abeliano di Bari grazie all’interpretazione di Andrea Buscemi

Ultimo appuntamento della Stagione per la rassegna Actor, ideata da Vito Signorile, del Teatro Abeliano di Bari con Memorie di un pazzo. Scritto nel 1984 da Roberto Lerici, editore, scrittore, regista, drammaturgo, coautore (tra l’altro) di A me gli occhi, please! insieme a Gigi Proietti, è l’adattamento dell’omonimo racconto di Nicolaj Vasil’evic Gogol, pubblicato per la prima volta nella raccolta Arabeschi (1835) e inserito poi nei famosi Racconti di Pietroburgo, postumi (1842).

In queste pagine Gogol rende con assoluta fedeltà il progredire del delirio paranoico del protagonista, tanto che il testo era presentato spesso come caso di studio da medici specialisti della seconda metà dell’Ottocento, e altrettanto realistica è la descrizione delle pratiche terapeutiche proprie del tempo. Roberto Lerici, nell’adattamento teatrale, segue fedelmente l’andamento e lo spirito del racconto, riuscendo a riprodurre tutta la disillusione del protagonista, la sua progressiva alienazione, le ossessioni nei confronti della società che egli ritiene profondamente ingiusta, nemica e responsabile delle sue frustrazioni. Il difficile rapporto tra individuo e società è un tema ricorrente nella produzione letteraria di Gogol, e anche qui il protagonista, Aksentij Ivanovič Popriščin vede, in tutti coloro che lo circondano, una minaccia ai suoi sogni di gloria, a quelle ambizioni che non riesce a soddisfare e che rendono sempre più doloroso il senso di inferiorità nei confronti dei colleghi a servizio dello Stato e più in generale nei confronti di una vita troppo complessa per lui. Nelle pagine del suo diario annota con ossessiva precisione episodi e considerazioni, fatti reali e supposizioni che corroborano i suoi timori di persecuzione. E queste pagine diventano cronaca drammatica del suo progressivo scivolamento nel baratro della follia. “Confesso che da qualche tempo ho cominciato a vedere e sentire cose che nessuno ha mai visto o sentito”. Così scrive il funzionario che ritiene un privilegio temperare le matite del direttore, che è segretamente innamorato di sua figlia, che sottrae delle lettere che ritiene essere state scritte dalla cagnolina della ragazza nell’ambito di uno scambio epistolare tra cani. Quando da questa fantomatica corrispondenza apprende che la giovane andrà in sposa ad un altro, la rottura del suo fragile e già compromesso equilibrio sarà totale. Persa completamente la ragione, si crederà Ferdinando VIII, re di Spagna, verrà rinchiuso in manicomio dove continuerà il suo delirio, ritenendo bastonate e docce gelate rituali propri della corte spagnola.

Il testo del monologo di Lerici rende efficacemente la progressione del delirio del protagonista, e altrettanto fa l’interpretazione di Andrea Buscemi nello spettacolo prodotto dalla Compagnia Tiberio Fiorilli, con le musiche di Niccolò Buscemi che sottolineano e caricano l’atmosfera surreale e drammatica. Buscemi dipinge di colori forti il personaggio di Popriščin, ne sottolinea quel senso di insoddisfazione e inadeguatezza quasi fisica che lo rende sofferente e insofferente. Veste e sveste i panni logori dell’uomo che negli abiti (come già accadeva ne Il cappotto, altro famoso racconto di Gogol) individua il senso dell’appartenenza ad uno status sociale, al quale tende senza però riuscire a raggiungerlo. L’abito definisce l’uomo ed il suo ruolo nella società, è oggetto carico di simboli ed è capace di dare una nuova identità. L’attore riproduce coi gesti e con la voce, a tratti querula, l’affanno e l’angoscia, lo smarrimento e la follia. La musica, ma anche le luci e la scena caotica, descrivono quel senso di instabilità, di disordine interiore che Buscemi rende anche con il muoversi goffo e sgraziato, con l’evocazione di una ossessiva eleganza che diventerebbe passaporto per una elevazione del rango e che lo affrancherebbe da una miserabile esistenza. L’uomo frustrato è un folle, ma è anche una vittima, incapace di sopravvivere in un mondo con regole crudeli e gerarchie soverchianti. La drammaticità grottesca permea il testo fino alla fine, fino all’ultima assurda battuta, fino allo sguardo folle e completamente sganciato dal reale.

Imma Covino
Foto dal web

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