L’efficace racconto di una piccola storia inserita in una storia troppo grande: “L’ora della mosca”, la pièce diretta e interpretata da Augusto Zucchi, trasporta gli spettatori della rassegna Actor del Teatro Abeliano di Bari nella pagina più nera della storia dell’Argentina

“Eravamo il vostro bottino di guerra”.

Era il 1976 quando in Argentina il generale Jorge Videla rovesciò il governo di Isabelita Peròn e scatenò contro i suoi oppositori le famigerate “squadre della morte”, formate da militari e poliziotti che torturarono e uccisero migliaia di oppositori del regime, facendo “scomparire” almeno 30.000 persone. Spesso i figli dei dissidenti sopravvissuti agli eccidi venivano dati in adozione a famiglie vicine al regime, inconsapevoli “bottini di guerra” (da un lato) ma anche inaspettato dono di vita per coppie che desideravano un bambino da crescere e amare. Caduto il regime, le madri di Plaza de Mayo chiesero conto dei desaparecidos, e chiesero anche al nuovo governo di attivarsi per rintracciare i loro nipoti e riportarli a quel che rimaneva delle loro famiglie mutilate e disperse. Così fu creato un corpo di polizia specializzato, affiancato da assistenti sociali e volontari, e molti di questi bambini furono individuati, avvicinati, magari a scuola, e resi consapevoli della loro vicenda, in uno svelamento necessario ancorchè doloroso e straziante della verità. Completato il processo di identificazione, i piccoli venivano infine prelevati e riportati ai parenti ancora in vita, concludendo una vicenda che se da un lato soddisfaceva un bisogno di giustizia, dall’altro faceva esplodere un dramma lacerante in quelle vite innocenti: avevano fino ad allora vissuto con i loro carnefici, senza sapere che quelle stesse mani dalle quali erano stati accarezzati avevano in modo diretto o indiretto ucciso coloro che per primi li avevano amati.

Augusto Zucchi, nella doppia veste di attore e regista, ha curato l’adattamento e portato sul palco del Teatro Abeliano di Bari per la rassegna Actor “L’ora della mosca”, tratto dai monologhi di Eduardo Pavlovsky e prodotto dalla Compagnia Tiberio Fiorilli. In scena, Zucchi veste i panni di un medico che durante la dittatura di Videla veniva chiamato a firmare i certificati di morte di persone torturate e trucidate dal regime, liquidando come suicidi quelli che in realtà erano terribili esecuzioni. In uno di questi scenari, di fronte ad una giovane coppia massacrata nel proprio appartamento, l’uomo sente un pianto che proviene da un’altra stanza e scopre una bambina di pochi mesi che egli prende con sè, amandola ed essendone amato profondamente. L’uomo è complice dei carnefici, è parte di coloro che definiremmo senz’altro “mostri”, è connivente con un sistema feroce. Eppure quest’uomo ci mette in crisi perchè, scandagliando le profondità del suo animo, non possiamo relegarlo in una categoria netta e definita, ben separata e altro rispetto a noi. Quest’uomo, infatti, è anche innegabilmente capace di sentimenti forti e belli, che lo spingono ad amare in modo totalizzante la bambina che si porta a casa. Possiamo allora definirlo davvero “mostro”? Un essere rispetto al quale possiamo sentirci diversi? Esistono qui un bene e un male la cui distanza è effettivamente ampia e definita? La bellezza del testo di Pavlovsky, esponente di rilievo della cultura latino-americana, drammaturgo, regista e psichiatra, è proprio nella capacità di descrivere l’anima dell’uomo nella sua complessità, nelle sue contraddizioni, mettendo in crisi le nostre coscienze, suscitando il dubbio di fronte al giudizio, alla confortante catalogazione che ci fa sentire diversi e moralmente superiori.

Quest’uomo non si è mai rassegnato alla perdita di colei che ha amato come una figlia (e dalla quale è stato profondamente amato), fino a quel terribile sabato pomeriggio in cui due uomini si erano presentati a casa sua per portare via la bambina. Il ricordo ossessivo e ripetitivo dei gesti, dei posti occupati nella stanza, dell’ora e del modo in cui il prelevamento si era svolto: tutto ci parla di un dramma sconvolgente, di una vicenda in cui i ruoli di carnefice e vittima, di vincitori e sconfitti si confondono, si mescolano, lasciandoci incapaci di proferire giudizio, di schierarci decisamente dal lato dei buoni. Qui non esistono buoni e non esistono cattivi. Anzi, più precisamente esistono buoni che sono anche cattivi, esistono intrecci e complicità col male dai quali scaturiscono sentimenti di amore puro e totalizzante. Esistono dunque mostri che non sono cosi diversi da noi, che non possiamo marchiare col segno dell’infamia tout court.

Augusto Zucchi ha senz’altro il merito di rendere appieno la complessità del personaggio, riuscendo a mescolare fragilità e farneticante delirio. La sua interpretazione suscita un’empatia nel pubblico, che riesce a comprendere e quasi ad amare la sua disperazione, ma subito dopo mostra la meschina ambiguità del personaggio, in un alternarsi di registri differenti che non gli tolgono coerenza e credibilità. Il testo non lascia molto spazio invece alla giovane protagonista (una brava Alessia Capua, che affida soprattutto alla mimica la sua recitazione), una infermiera convinta di rispondere ad una offerta di lavoro, che si ritrova a rivangare un passato doloroso e terribile. Il drammaturgo le regala solo poche battute, come se fosse un interlocutore necessario ma ancora una volta muto, impotente, che ha subito e ancora subisce. Era una bambina di sette anni, innamorata di colui che credeva essere suo padre. Oggi è una giovane donna che gli urla il suo disprezzo, ma nel farlo rivela una profonda lacerazione interiore, uno strappo che proprio non si può ricucire. “Eravamo il vostro bottino di guerra” è una coltellata all’uomo, ma è anche il grido disperato di una vita ingannata e spezzata più e più volte. Di fronte ad un dolore troppo grande da sopportare e finanche da dire, ciascuno dei due reagirà in qualche modo, forse nell’unico modo possibile, disperato e disperante. Entrambi usciranno di scena, da quella scena che è la casa familiare nella quale i mobili non sono stati spostati, in cui sono stati ricostituiti i posti occupati sul divano e intorno al tavolo della cucina, affinchè si ricreasse lo sfondo di quel sabato pomeriggio in cui è stato squarciato il velo della menzogna, ma anche i cuori dei protagonisti e la loro stessa vita.

Una pièce che racconta una piccola storia nell’ambito di una storia più grande, che dà voce al dramma di un singolo per dire della disperazione di una intera società segnata dagli orrori della dittatura, per ricordarci che non esiste futuro senza memoria, anche e soprattutto quando la memoria è un coltello che gira in un’insanabile piaga. Ci è sembrato utile, in quest’ottica, il prologo di Antonella Formisano, che di questo spettacolo è anche aiuto regista, e che ci porta immediatamente nel contesto storico e politico della vicenda. Non altrettanto utile invece, a nostro parere, la decisione di recitarla “in lingua”, o più precisamente in italiano con accenti e brevi incursioni nella lingua argentina, una scelta che nulla aggiunge al processo di immersione nel periodo storico e che sembra una sovrastruttura posticcia. Nel complesso una pièce comunque molto convincente a partire dal testo, ricco di sfaccettature e capace di viaggiare nei complessi meandri della mente umana. E un protagonista che riesce a rendere efficacemente questa complessità, assumendo registri narrativi diversi e passando agilmente dall’uno all’altro con abile maestria.

Imma Covino

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