Qui Dio non c’è: Theodoros Terzopoulos, con la sua sconvolgente, coinvolgente e convincente versione del capolavoro di Samuel Beckett “Aspettando Godot” andata in scena al Teatro Piccinni di Bari, pone ogni mente pensante di fronte ad una definitiva scelta di campo

Pagine di libro da voltare con meccanico dolore, senza aver capito tutto, senza rammentare. Il mondo è così! No, il tuo mondo te lo fai! Questo mondo è lui che ci si fa! Quante volte io, rinnegato, lo cercai e non mi ha cercato mai quel Dio; e volevo solo un segno. Ma il cielo è come un vecchio pazzo con un violino aspide: pagare di continuo il prezzo, sentirsi sempre un ospite. A rubare il fuoco ci si bruciano le vite, ma un po’ d’aria per campare si respira anche dalle ferite. E se non mi fosse andato mai di bere, avrei imparato a farlo; e allora, Dio, bevi con me.” (Claudio Baglioni)

Riguardo “Aspettando Godot” di Samuel Beckett è stato praticamente già scritto tutto; fiumi di parole sono sgorgati dalle migliori (e dalle peggiori) penne sin dal debutto mondiale del 1953 nel tentativo di spiegare le ragioni di un’opera senza tempo e senza pari, di renderla accessibile, scevra da quelle speculazioni, incomprensioni e fraintendimenti che, a ben vedere, sono state invece scientemente disseminate nel testo come mine pronte ad esplodere sotto gli incauti piedi degli occasionali visitatori. Cosa potremmo dunque aggiungere noi, con la nostra povera penna, ora che abbiamo potuto finalmente assistere – ma sarebbe più giusto dire partecipare – alla versione firmata dal maestro Theodoros Terzopoulos, che ne ha curato regia, scene, luci e costumi nonché il riadattamento testuale assieme a Michalis Traitsis, una produzione Emilia Romagna Teatro ERT Teatro Nazionale e Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini inserita nell’annuale cartellone di prosa del Comune di Bari / Teatro Pubblico Pugliese andata in scena al Teatro Piccinni? Forse null’altro può esserci concesso se non una personalissima digressione sul senso della straordinaria performance, nello strenuo ennesimo tentativo di abbattere la quarta parete e dare il giusto tributo ad una delle – a nostra memoria – più sconvolgenti, coinvolgenti e convincenti letture del capolavoro assoluto del teatro dell’assurdo, che poi assurdo non è affatto.

La domanda che continua a turbare i sogni di tutti gli spettatori del mondo è sempre la stessa: chi è Godot? Inutile girarci attorno, tanto quanto è inutile sperare nell’aiuto del drammaturgo che finanche alla Prima assoluta del Théâtre de Babylone di Parigi non si presentò, inviando, in sua vece, una comunicazione che, se possibile, complicava e scompigliava ancor più la questione: “Non so chi sia Godot. Non so nemmeno se esista. E non so se credano in lui o no i due che lo stanno aspettando. Gli altri due, che passano alla fine dei due atti, devono essere una rottura nella monotonia. Tutto quello che so l’ho mostrato. Non è molto, ma per me è abbastanza, di gran lunga. Direi, anzi, che sarei stato soddisfatto anche con meno. Quanto a volervi trovare un più ampio, più alto significato, non ne vedo il punto. Ma è possibile. Forse [i personaggi] vi devono delle spiegazioni”. Tra le interpretazioni rincorsesi negli anni, quelle che hanno avuto maggiore fortuna sfociano ora nell’analisi psicoanalitica, in particolare quella che individua la trinità freudiana di Ego, Es e Superego rispettivamente nei personaggi di Vladimiro / Didi ed Estragone / Gogo e di Godot, il supervisore morale assente, ora nell’interpretazione storica di profonda condanna degli orrori della Seconda Guerra Mondiale nello specifico e di ogni guerra in generale, con Godot che potrebbe essere la pace mondiale, in cui è comodo leggere una nota autobiografica dello stesso Beckett, il quale durante l’occupazione nazista della Francia prese parte alla Resistenza fuggendo con la futura moglie nel sud del Paese, ora nell’allegoria cristiana che parte dalla frammentazione letterale di Godot (in inglese, oltre al semplice ‘God-not’, si può riflettere sull’unione di ‘God’ – ‘Dio’ e ‘dot’ – ‘punto’, mentre in francese il suffisso ‘ot’ vuol dire ‘piccolo’).

Crediamo di poter affermare senza tema di smentita che la versione di Terzopoulos, artista calato come nessuno mai nei tempi che ci è dato in sorte di vivere, inglobi le ultime due interpretazioni, rendendo di fatto attualissimo il testo beckettiano, raccogliendone il pesante testimone, anzi facendosene esso stesso testimone e testimonianza, senza concedere e concedersi mediazioni, conciliazioni o pacificazioni; il regista greco, con una perfetta parabola discendente, spalanca il sepolcro degli orrori, anzi ci inuma gli spettatori tutti (come fa con i due protagonisti, costretti a recitare praticamente sempre distesi come fossero già stati deposti nella loro tomba) ricoprendoli di terra, sangue e merda nonchè di immagini, suoni, parole, tracce, frammenti – spesso dal peso davvero insopportabile – che tocca al pubblico recepire, comprendere, decodificare, ricostruire, mandare a memoria e, per quanto possibile, trasmettere una volta fuori dal teatro.

La scena scarna, sovrastata da un muro composito diviso da una croce illuminata che si sgrana in quattro pannelli che creano uno spazio bidimensionale per lo più claustrofobico, lascia percepire uno scenario bellico, richiamato non solo negli abiti ma anche negli invasivi effetti sonori e nelle musiche originali di Panayiotis Velianitis, che potrebbe essere Ucraina o Palestina, in cui Gogo e Didi, ma anche i due viandanti Pozzo e Lucky, attendono di poter essere salvati da un Dio / Godot che tarda a palesarsi, preferendo lanciare dall’alto punitivi coltelli o farsi annunciare dal suo messaggero, che, sputando sangue e saliva, parlerà attraverso una croce affermando che il suo padrone è un pastore giusto ma inflessibile. Qui Dio non c’è, ma se ne avverte lo sguardo, penetrante ed impenetrabile, opprimente nella sua totale assenza, un tutto che si fa nulla, un’eco che è divenuto assordante silenzio proprio quando avrebbe dovuto rispondere all’urlo più forte e disperato, proprio nel momento dell’assoluto bisogno; qui è il Divino a fallire, a tradire l’uomo e le sue aspettative, un Dio Padre che, dimentico dei propri figli, li lascia, ancora una volta, morire sulla croce condividendo la sorte del Cristo, soli al cospetto della loro Passione e sull’orlo del precipizio degli inferi della civiltà, condannandoli alla ripetizione inesauribile di gesti e situazioni che si rinnoveranno all’infinito, abbandonandoli al dilaniarsi nel dolore, non solo fisico ma soprattutto spirituale, di chi ha scoperto che Colui che credevano essere il buon Pastore in realtà, a visione più attenta, non lo è affatto.

Non vi è speranza, dunque? Terzopoulos pare rispondere con l’ultima simbolica immagine della pièce, con i coltelli di cui si è detto trasformatisi in libri sacri che, seppur sporchi del sangue di un nuovo sacrificio d’innocenti, sembrano formare una scala verso il cielo, in tal modo spingendoci, magari attraverso il rifiuto dell’immobilismo e dell’insoddisfazione che porta Didi e Gogo a pensare addirittura più volte al suicidio (sotteso richiamo al mito di Sisifo di Albert Camus: “vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio; giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia”) impiccandosi ad un bonsai, ad una nuova consapevolezza, a riappropriarci del potere di agire per cambiare: se Dio / Godot “oggi non verrà ma domani forse”, non basterà gridare con il salmista “Dio, non nascondermi il tuo volto” o, finanche, con Cristo “Padre, perché mi hai abbandonato?”, bensì, come Claudio Lolli concludeva al termine della sua omonima canzone (“ho cominciato a vivere forte proprio andando incontro alla morte”), occorrerà che noi uomini ci si impegni più a fondo, obbligandoci ad una scelta per raggiungere il nostro scopo, superando il nostro quotidiano bisogno di uno sguardo divino, di una parola di aiuto e conforto che – spesso – stentiamo a riconoscere nel silenzio assordante della nostra esistenza; solo così quelle implorazioni, che appartengono all’essere umano e ai nostri giorni, non si arresteranno ad una eretica accusa ma potranno trasformarsi in consapevole agnizione della presenza di Dio, mirabilmente sintetizzata nelle parole di Giovanni Testori: “T’ho amato con pietà, con furia T’ho adorato. T’ho violato, sconciato, bestemmiato. Tutto puoi dire di me, tranne che T’ho evitato”.

Magnifico il cast formato da cinque attori perfetti nel rappresentare altrettante ombre senz’anima, dimentiche di sé e del narratore che le ha convocate in quel non luogo, presenze ormai svuotate di significato, masse corporee troppo presto private della loro umanità. Enzo Vetrano e Stefano Randisi, rispettivamente nei panni di Estragone / Gogo e Vladimiro / Didi, mettono al servizio del maestro greco tutta la loro infinita Arte di attori e registi eccelsi, regalandoci una interpretazione memorabile, come fanno anche Paolo Musio nei panni di Pozzo, Rocco Ancarola in quelli del ragazzo messaggero e, soprattutto, Giulio Germano Cervi che, nelle vesti a brandelli di Lucky, realizza un’interpretazione sublime che resterà negli annali del teatro non solo beckettiano: sono loro che, nei novanta minuti di straordinario spettacolo, utilizzando i loro corpi, per avvinghiarsi o respingersi, e le loro voci, che rendono il testo finalmente cristallino, in modo da allontanarsi da caratterizzazioni e concedendosi ad una immedesimazione che appare prima di tutto mentale, si caricano il pesantissimo fardello di un’improba prova che pochi altri sarebbero riusciti a reggere e a portare splendidamente a termine, incarnando il pensiero di Beckett e Terzopoulos in modo impareggiabile, obbligandosi a rinnovare ogni sera davanti ad una platea diversa quel girone infernale interminabile, quell’eterno Calvario che non ammette soste, quella perenne confessione che non prevede assoluzioni, quella pena inesauribile da pagarsi con la propria stessa esistenza, quell’infinito dolore che non è più solo dei protagonisti, ma di ogni uomo che, oggi come ieri, ha setacciato come sabbia e sgranato come un rosario la propria vita prima di doversi arrendere alla silenziosa assenza del suo Interlocutore.

Theodoros Terzopoulos vince a pieno titolo la sua sfida, trasmettendo . si spera prima che sia troppo tardi – alle nuove generazioni l’urgenza di interrompere il corto circuito folle e drammatico che ci ha catturato tutti; grazie a lui, il pensiero, le opere, le parole stesse di Beckett, pur essendo tradite, trasferite, trasportate, portate oltre (dal greco metapheréin, significato originario della parola metafora), giungono sino a noi e compiono la loro missione anarchica, divenendo un pre-testo per realizzare una definitiva catartica quanto coraggiosa discesa nelle oscurità dell’animo umano, osservandone i particolari e presentandoli in un modo più vicino ai nostri tempi, così da liberarli da schemi e dare loro nuova forma, nuove accezioni, nuovi significati, nella malcelata e – a giudicare dalla nostra cronaca quotidiana – malriposta, se non del tutto vana, speranza che da quella distruzione, da quelle macerie, da quelle rovine possa nascere un individuo nuovo.

Per questo e per molto altro, questo “Aspettando Godot” è uno spettacolo indispensabile, irrinunciabile, fondamentale, essenziale, innanzitutto per la sua vocazione antropologica a farci meditare sulla nostra stessa natura, a rendere dicibile l’indicibile e visibile l’invisibile, capace di condurci tutti nell’asfissiante ed irrisolto inferno delle nostre anime, negli oscuri e putridi pozzi senza fondo creati anche oggi dalla nostra folle disumanità, in modo che quando, al termine della pièce, ognuno degli spettatori farà ritorno al suo tempo ed al proprio ovattato focolare familiare, ogni mente pensante nascosta tra il pubblico sarà ben cosciente che quella lezione di teatro resterà indelebile nella sua mente, costringendola ad una definitiva scelta di campo: continuare ad attendere all’infinito o cominciare ad andare incontro al proprio futuro?

Pasquale Attolico
Foto di Johanna Weber dal web

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