Il successo ha premiato il coraggio della Fondazione del Teatro Petruzzelli che ha inaugurato la Stagione d’Opera 2024 con “Fidelio”, l’unica opera lirica composta da Ludwig van Beethoven

Il mio “Fidelio” non è stato compreso dal pubblico. Io so che la sinfonia è il mio elemento naturale. Quando sento qualcosa in me è sempre la grande orchestra.(Ludwig van Beethoven da una lettera a Ignaz von Seyfried)

Beethoven è il mare, la terra, il cielo, ed è insieme l’umanità.” (Primo Levi)

La scelta della Fondazione del Teatro Petruzzelli di inaugurare la Stagione d’Opera 2024 con il “Fidelio” di Ludwig van Beethoven ha avuto, perlomeno agli occhi di chi vi scrive, una magnifica qualità propedeutica, figlia della costante coraggiosa volontà della Sovrintendenza del Politeama barese di aprirsi a partiture meno convenzionali che consentano al pubblico di conoscere pagine musicali poco eseguite ma, non per questo, meno interessanti, in modo da evitare di rinchiudersi in schemi rigidi e prefissati.

Dopo Fidelio, avrei voluto scrivere un’altra opera, ma non ho trovato nessun libretto adatto. Ho bisogno di una storia che mi stimoli, un testo morale, edificante” confessò un poco sincero Beethoven al suo allievo ed amico Stephan von Breuning; in realtà, furono la tormentata genesi di un lavoro che, negli intenti, avrebbe dovuto innovare il genere, piegandolo alle esigenze di un’impetuosa tensione etica e inventiva, ma soprattutto le contrarietà, gli scarsi riconoscimenti e i miseri guadagni che convinsero il Maestro a lasciare che “Fidelio” restasse la sua unica esperienza operistica. L’affermazione di Beethoven ha però del vero: l’originario dramma di Jean-Nicolas Boully “Lèonore, ou l’amour conjugal”, già musicato da Pierre Gaveaux, lo aveva catturato pienamente per quella affermazione della irrefutabile vittoria delle forze del bene, della giustizia e della ragione sul male, sui soprusi, sulla disonestà. La versione definitiva, la terza, vide la luce nel 1814 grazie al risolutivo apporto sul libretto di Georg Friedrich Treitschke, con la composizione del quarto adattamento dell’ouverture, la splendida pagina musicale che ancora oggi ci delizia e che, da sola, vale l’ascolto dell’intera Opera.

Rifacendosi al modello del Singspiel, con le parti cantate che si alternano a quelle recitate, Beethoven ci introduce nella drammatica storia di Leonora che, per salvare lo sposo Florestano dalle carceri e dalla morte sicura cui lo ha condannato il governatore Pizarro, si traveste da Fidelio, risultando talmente attendibile nei panni di un uomo da farsi assumere come aiutante del vecchio custode del carcere, Rocco, e da accendere gli amorosi sensi della figlia di quest’ultimo, Marcellina, al punto da farla giungere a ripudiare il giovane Jacquino cui pure si era promessa. Quando Pizarro, spaventato di una imminente ispezione del ministro Don Fernando, amico del prigioniero, si dispone ad uccidere egli stesso Florestano, Leonora/Fidelio rompe gli indugi e decide di intervenire, smascherando il tiranno e riunendosi al suo sposo, che ottiene i giusti riconoscimenti da Don Fernando, il quale libera dalla disumana galera anche tutti gli altri prigionieri, che inneggiano al trionfo dell’amore coniugale e della fraternità fra gli uomini.

La regia che Joan Anton Rechi, affiancato dallo scenografo Gabriel Insignares e dal costumista Sebastian Ellrich, aveva realizzato per questa produzione del Teatro La Fenice di Venezia, non tradisce le alte aspettative dell’inaugurazione della Stagione del Teatro Petruzzelli. Ispirandosi alla collocazione spagnola della vicenda originaria, Rechi, il cui lavoro è stato qui ripreso da Gadi Schechter, irretisce lo spettatore nel primo atto, con quella testa incompiuta e divelta di una statua gigante raffigurante un non meglio identificato leader o, più verosimilmente, la caduta degli dei in un mondo dominato dall’odio e dall’ingiustizia, ed il geniale richiamo al gigantismo architettonico della prigione di stato franchista all’aria aperta della Valle de los Caídos nei pressi dell’Escorial, per la cui costruzione furono impiegati in regime di lavori forzati gli sconfitti della guerra civile, per poi catturarlo definitivamente nel secondo magnifico atto, con l’antro della prigione che pare raffigurare un non luogo, a metà strada tra il biblico ventre della balena che ospitò Giona ed un portale fantascientifico che conduce verso un “altro” mondo, sino alla splendida esplosione di gioia del finale; nel complesso, un allestimento che, pur non concedendo granché alle capacità attoriali dei protagonisti (ammesso che lo stesso Beethoven le abbia previste), consente a tutti gli interpreti di proporre una convincente prova di canto, a tratti addirittura ottima.

La parte musicale guidata dal Maestro Stefano Montanari, al suo debutto in qualità di Direttore stabile dell’Orchestra del Teatro Petruzzelli, è stata efficace in ogni istante della rappresentazione, con una magistrale attenzione al dettaglio, ricchezza cromatica, morbidezza ma anche grande tensione unitaria, plasmando un’esecuzione varia, appassionata, intensa, ricca di chiaroscuri, che esaltava tanto l’ensemble quanto il Coro preparato da Marco Medved, anch’egli al suo battesimo nel nostro Politeama.

Il cast impegnato nella Prima aveva il suo eroe in Ric Furman che, chiamato all’ultimo istante a sostituire Jörge Schneider, assente per motivi di salute, affrontava Florestan mostrando di padroneggiare a meraviglia il non facile ruolo, immerso in un’aura marcatamente malinconica e tormentata prima quanto trionfante e vittoriosa dopo, con punte interpretative di lirico vaneggiamento e morbido decadentismo che, unite ad una tecnica più che pregevole, gli facevano pienamente meritare l’ovazione riservatagli. Helena Juntunen ha svettato offrendo una prova di grande pregio che solo raramente veniva sovrastata dai suoni che provenivano dalla buca dell’Orchestra, per lo più distinguendosi per la sua maestria che le consentiva di restituire una pregevole interpretazione di Leonore/Fidelio al pubblico del Petruzzelli. Le voci potenti, ma con molteplici e limpidissime colorature, del Rocco di Tillman Rönnebeck, della Marcellina di Francesca Benitez, del Don Pizzarro di Vito Priante, del Don Fernando di Modestas Sedlevičius e dello Jaquino di Pavel Kolgatin sono risuonate nel Politeama barese, donando il giusto pathos alle combattute personalità dei loro personaggi. Completavano degnamente il cast Vincenzo Mandarino e Gianfranco Cappelluti, rispettivamente primo e secondo prigioniero, entrambi apprezzatissimi pur nella brevità della loro parte.

Pasquale Attolico
Foto di Clarissa Lapolla

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.