Arte per sopportare l’insopportabile: nelle Giornate della Memoria, la coraggiosa lettura dell’Olocausto di “Tanto vale divertirsi” della Compagnia Uno&trio emoziona e fa riflettere il pubblico del Teatro Piccinni di Bari

Arte come via di fuga, sopravvivenza, oblio. Arte come atto di resistenza e resilienza. Arte per sopportare l’insopportabile.

La Compagnia Uno&trio sceglie il linguaggio della commedia per raccontare un aspetto poco conosciuto della tragedia dell’Olocausto, e lo fa partendo da fatti realmente accaduti durante la Seconda Guerra Mondiale nel campo di transito di Westerbork, in Olanda. Qui, dall’ottobre del 1942 all’aprile del 1945, fu promossa l’attività artistica che (soprattutto fra il ‘43 e il ‘44) toccò livelli di performance e organizzazione tali da poter legittimamente sostenere che in questo campo andava in scena il miglior cabaret di tutta l’Europa occidentale. E, in effetti, per una serie di coincidenze, in questo periodo si ritrovarono qui i più famosi comici del tempo, tutti ebrei, ma non solo. Nacque anche un ensemble di musica da camera, un coro, un’orchestra sinfonica di 40 elementi di alto livello professionale. E poi ballerini, scenografi, costumisti ed ogni maestranza del settore.

Fare teatro, danza, musica era affare serio e pericoloso. Recitare ed entrare in contatto con il pubblico (i gerarchi nazisti nelle prime file) era giocare con la vita e la morte, sfidare la storia e anestetizzare il dolore, obbedendo non più al potere dei nazisti ma (sono parole di Viktor Ullmann, musicista internato a Terezin) unicamente a quello delle Muse. “Non abbiamo più nulla da perdere, quindi … Tanto vale divertirsi”: da qui il titolo della pièce andata in scena al Teatro Piccinni di Bari con la regia e l’interpretazione di Antonella Carone, Loris Leoci e Tony Marzolla, su drammaturgia originale di Damiano Nirchio, arrangiamenti musicali di Vito Liturri, scenografia e costumi di Pier Paolo Bisleri, disegno luci di Giuseppe Pugliese, realizzata con il sostegno del Comune di Mola di Bari.

È una commedia che sottende ad una tragedia, la storia di uno spettacolo messo in scena da una compagnia di attori piuttosto “fluida”: sono rimasti in due, mentre la settimana prima erano in sette. La precarietà è la cifra della loro esistenza, il riscontro e il plauso del pubblico il loro campo di battaglia. Devono assicurare divertimento e risate, e sanno bene che ogni sera, ogni rappresentazione potrebbe essere l’ultima. Insieme ad un nuovo compagno dalle dubbie capacità attoriali provano lo spettacolo, che è una versione comica dell’Amleto, mentre dal sipario (che si confonde con il fondale) sbirciano l’arrivo del pubblico. Disperazione e disincanto nei due attori che aprono la scena, portatori di un fatalismo cinico ma nello stesso tempo abitati dai fantasmi della propria storia personale. Inconsapevolezza nell’uomo che si unisce a loro e che, almeno all’inizio, non sembra cogliere appieno quella che è la posta in gioco.

È un approccio inusuale alla tragedia dell’Olocausto, quello scelto dalla Compagnia Uno&trio, che in questa seconda tappa della ricerca dei meccanismi della risata (dopo “Alla moda del Varietà”), si muove su un terreno insidioso e delicato. Ironia e risate stridono e sembrano impossibili in uno scenario di morte come quello di un campo di concentramento. Eppure leggendo questa pagina (ancora poco conosciuta) si comprende che questi uomini e queste donne sono riusciti a compiere quella che Bergson definisce come una “sospensione momentanea del cuore, della sensibilità”. Questa sospensione permette di mettere da parte per un momento l’empatia, ci fa ridere (anzichè provare compassione) davanti ad un uomo che scivola su una buccia di banana. Allo stesso modo, di fronte alla consapevolezza che la propria vita vale meno di zero, che poggia sul fragile terreno delle risate che può suscitare nell’arco di uno spettacolo, nasce in loro un disperato atto di resistenza umana, politica, spirituale. All’arte è affidato quel giorno in più, la promessa di una temporanea salvezza. La precarietà, la morte che aleggia costantemente nell’aria, il voler credere ad un’immunità che poggia sul riconoscimento del proprio talento, sono la molla che permette di praticare e inseguire il divertimento (inteso nell’accezione latina di devertere, cioè “cambiare direzione”).

È un punto di vista interessante quello scelto da Damiano Nirchio, autore della drammaturgia originale, che aggiunge un tassello nuovo alla conoscenza della storia dell’Olocausto, nei giorni che precedono la Giornata della Memoria. Carone, Leoci e Marzolla sul palco mescolano generi diversi, passando dall’uno all’altro con estrema naturalezza. Il ritmo dello spettacolo è sempre sostenuto, ma non forsennato. C’è un crescendo nei toni, nei dialoghi, nell’approssimarsi del terribile momento del confronto con il pubblico. C’è il superamento della disperazione, quel fatalismo ben descritto nel finale quando trucco, lustrini e abiti di scena lasciano il posto alle stelle gialle cucite sui cappotti lisi. C’è l’assurdità delle immagini proiettate sullo sfondo, quella Ballata degli scheletri (l’animazione della Disney del ‘29) che, a fronte di quanto ascoltato e visto fino a quel momento sul palco, non riesce a suscitare la risata ma è un macabro e doloroso pugno nello stomaco, con quelle note allegre che stridono con le immagini. C’è il ricordo del dato storico delle orchestrine di prigionieri che sulle note di allegre marcette accoglievano i deportati che dai treni venivano condotti direttamente ai forni crematori. E c’è l’ultima ironica e amara battuta di Max Ehrlich che risponde alla richiesta del suo aguzzino mentre si avvia verso la morte.

Sincronia, amalgama, interconnessione sono la cifra per i tre attori, davvero convincenti nell’attraversare linguaggi che spaziano dalla musica al cabaret, dalla prosa al vaudeville.

Questa evocazione dell’arte nei campi di concentramento corre il rischio di essere un pretesto furbo, una specie di abito che giustifica e nobilita il susseguirsi di scene, gag, frizzi e lazzi. Ma a noi sembra che tutto lo spettacolo sia in realtà un omaggio a quegli artisti che hanno reso alta testimonianza alla forza dell’arte, e alla forza provocatoria del teatro, luogo in cui una comunità oppressa può cantare il proprio dolore, devertere, e ritrovare per un istante, ancora per un breve istante, il sorriso.

Imma Covino
Foto dalla pagina Facebook della Compagnia

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