Una liberatoria presa di coscienza che trova la sua ragion d’essere nel solo espletarsi di un gesto non convenzionale, destabilizzante, rivoluzionario: la versione di Luca De Fusco del capolavoro di Lev Tolstòj “Anna Karenina” cattura il pubblico del Teatro Piccinni di Bari

Una delle superstizioni più frequenti e diffuse è che ogni uomo abbia solo certe qualità definite, che ci sia l’uomo buono, cattivo, intelligente, stupido, energico, apatico, eccetera. Ma gli uomini non sono così. Gli uomini sono come i fiumi: l’acqua è in tutti uguale e ovunque la stessa, ma ogni fiume è ora stretto, ora rapido, ora ampio, ora tranquillo, ora limpido, ora torbido, ora tiepido. Così anche gli uomini. Ogni uomo reca in sé, in germe, tutte le qualità umane, e talvolta ne manifesta alcune, talvolta altre, e spesso non è affatto simile a sé, pur restando sempre unico e sempre se stesso.” (Lev Nikolàevič Tolstòj)

La più grande disgrazia della mia vita è la morte di Anna Karenina.”(Sergej Dovlatov)

La versione di “Anna Karenina” adattata per il teatro da Gianni Garrera e diretta da Luca De Fusco, in scena al Teatro Piccinni nell’ambito del cartellone della Stagione “AltriMondi” 2023.24 del Comune di Bari e del Teatro Pubblico Pugliese, si apre e si chiude con quelli che – confessiamolo – sono ormai diventati gli unici stereotipati elementi con cui l’opera viene essenzialmente e – quasi – unanimemente (ri)conosciuta: la forma aforistica dell’incipit (“Tutte le famiglie felici sono simili tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”) e l’immagine di Anna che pone fine alla sua esistenza gettandosi sotto il treno. Ma nel mezzo c’è tutto il resto, come De Fusco e Garrera sanno bene, e tutto il resto raffigura un mondo intero descritto in modo irripetibile attraverso il fascino della scrittura immortale di Lev Tolstòj da cui trasudano una potenza creativa dell’immagine ed una concretezza e densità semantica del dettaglio che costringono il lettore (o, nel caso di specie, lo spettatore) di ogni epoca ad inerpicarsi su vette inesplorate, alla ricerca – non sempre proficua – delle risposte agli interrogativi esistenziali che costellano l’intera narrazione.

Al contrario di quanto l’immaginario collettivo si sia imposto nel corso degli anni, l’errore più ingenuo che si possa fare ponendosi davanti ad un testo così ricco è proprio quello di cercare di ridurlo ad un’unica interpretazione. Ad una visione semplicistica, Tolstòj, grazie anche al suo presunto straniamento peculiare, sembra non far altro che fotografare uno spaccato della società russa degli anni ‘70 del XIX secolo, soffermandosi in particolare – come fosse un ipnotico fermoimmagine – sulla porzione di vita di una donna che, grazie ad un passionale amore per un giovane militare, sembra risvegliarsi dal torpore di fedele moglie e madre irreprensibile in cui si era costretta, comprendere di non poter più essere parte di quel vuoto riempito di dolce far niente, sfarzose cene e prime teatrali, noiose chiacchierate e visite parentali, di non poter più appartenere al limbo in cui la sua posizione sociale l’aveva felicemente relegata, e lanciare il suo liberatorio urlo di ribellione alle convenzioni sociali, perpetuando il suo scandaloso adulterio, che non è peccato ma via di fuga da una società perbenista e da una aristocrazia che bada alla forma e alle apparenze, essendosi convinta di avere diritto di decidere del proprio destino, andando contro ogni disparità di genere, impegnandosi contro tutto e tutti in una battaglia che non si alimenta alla coppa della vittoria, sapendo bene che i tempi non fossero maturi (e forse non lo sono nemmeno oggi!) per un radicale mutamento della società, ma, semmai, trova la sua ragion d’essere nel solo espletarsi di un gesto non convenzionale, destabilizzante, rivoluzionario.

In realtà, “Anna Karenina” è un romanzo moderno, sempre attuale, che tratta temi universali e che, preludendo allo sviluppo letterario novecentesco, particolarmente a quello che fu il sublime lavoro di Arthur Schnitzler (“La signorina Else” e “Doppio sogno” sopra tutti), di fatto realizza il più fulgido esempio di dramma psichico analizzato attraverso la coscienza della protagonista, punto di vista privilegiato quanto inedito, talmente perfetto da renderne difficile ogni accostamento, ogni rilettura, ogni messa in scena, e praticamente impossibile e fallimentare ogni tentativo di migliorarlo, di andare oltre la parola tolstòjana, riuscendo a leggere anche tra le righe, tra le parole non dette, tra gli assordanti silenzi.

I centottanta minuti (e non novanta, come erroneamente riportato nelle note di sala che circolano sul web) della riduzione di Garrera e De Fusco sembrano imporsi questo obiettivo, scegliendo di indugiare sugli aspetti amorosi della narrazione originale, nello specifico sulle vicende di alcune delle coppie illustrate nel romanzo, utilizzando l’inedito espediente di far recitare ad ogni personaggio non solo i dialoghi che li vede interpreti ma anche le porzioni riservate al narratore, artificio che, seppur inizialmente sorprende ed incuriosisce, non riesce a trasportarci in quell’universo abitato da quella strana costola d’umanità in cui ogni elemento è il fremente rovescio dell’altro, a restituirci in modo particolareggiato tutte le contrapposizioni ed i conflitti, le verità e le fantasie che sembrano assalire all’unisono la protagonista quanto i comprimari, così finendo, aggrovigliandosi sugli argomenti trattati sino a mescolarli e contorcerli, per divenire straniante e, talvolta, persino irritante, rischiando così di appesantire la rappresentazione e di privarla della sua innegabile capacità di coinvolgimento.

La pièce, pur collocandosi tra le edizioni di mirabile fattura, grazie anche alla suggestiva scenografia di Marta Crisolini Malatesta, cui si devono anche i sontuosi costumi, ed alle seducenti luci di Gigi Saccomandi, non sempre riesce a superare l’altissimo steccato alzato dallo stesso Tolstòj, in modo che il flusso continuo di pensieri e parole che sonda l’impalpabile umano in tutte le sue sfumature riesce solo a tratti a coinvolgere appieno lo spettatore, né serve, a tale scopo, la scelta – ormai abusata – di far ‘rinchiudere’ il palcoscenico da un telo trasparente che, in momenti salienti dell’opera (come il tragico finale o il sogno di Anna di poter vivere un appagante triangolo amoroso e sessuale con marito e amante), si trasforma in schermo cinematografico per mano di Alessandro Papa, di fatto operando il totale ribaltamento dell’operazione perpetuata al cinema dalla magnifica trasposizione del 2012 di Joe Wright e Tom Stoppard che, al contrario, trasformarono il set in un’immensa quinta teatrale.

De Fusco, grazie anche agli straordinari attori impegnati, appare invece assolutamente ineccepibile nel tratteggio dei suoi protagonisti, mai assolutamente positivi o negativi, ma tutti dinamici, fluidi, pronti a mutare in un solo attimo nel corso della narrazione; in tal modo, non assistiamo più alla rappresentazione teatrale di una storia tanto semplice quanto appassionante, ma piuttosto ad una sorta di copione atemporale ed universale, di canovaccio alla maniera della Commedia dell’Arte, all’interno del quale non agiscono né persone né personaggi, ma piuttosto simboli, maschere – in puro stile pirandelliano – che esprimono stati d’animo, canoni di comportamento, sentimenti umani, e che paiono poter vivere di vita propria, non avendo più bisogno di essere calati dentro la carne e il sangue degli individui. E non si pensi che si tratti di puro esercizio di stile, perché la sua regia, nell’abbraccio tra l’essenza della vicenda e la forza della rappresentazione, riesce a cogliere ogni aspetto dell’essere umano tolstòjano, dai dubbi alle contraddizioni, amore e passione, sincerità e ipocrisia, gelosia e insoddisfazione, scelte giuste e sbagliate, contrasti sociali, difficoltà di relazione, incomunicabilità: tutto traspare nelle parole e nei gesti della Compagnia, in un continuo scambio di sensazioni tra palco e platea.

A condurre il pubblico alla pura emozione, dalle prime battute sino al fatale epilogo, trascinandolo, salvo fugaci attimi di insperata leggerezza, in un vortice tragico senza fine, in un continuo rincorrersi di responsabilità e emancipazione, imposizioni e libertà, menzogne e verità, essere ed apparire, ci pensa, dunque, l’ottimo cast, che ha la sua punta di diamante in Galatea Ranzi e nella sua sublime interpretazione, dal ritmo sempre più incalzante, che coraggiosamente sfugge sia il tempo più delirato del melodramma sia il facile ricorso alle lacrime, vietandosi anche qualsivoglia ruffiano ricorso ad un giro di valzer con una suggestione fine a se stessa; grazie a lei si riesce persino ad avvertire il battito tumultuante del sangue di questa donna, altera, ardente, appassionata, vivida, viva, ora come allora, attualissima di fronte alla sua scelta tragica, nel senso greco del termine, e tanto più tragica quanto più attuale, la cui vicenda umana appare in qualche modo antesignana di quella violenza – anche solo dialettica – perpetuata sull’universo femminile che è origine delle tante, tantissime, troppe, orribili notizie di cronaca che ancora ci tolgono il sonno e la pace. In Galatea pare essersi incarnata Anna, occupandone cuore, mente e corpo, trasmettendole gli schizofrenici meccanismi cerebrali, la volubile mutevolezza, l’innata insicurezza, svelandone i desideri più nascosti, le ambiguità, i pensieri contrastanti, le umane (in)decisioni, al punto che davanti a noi non c’è più la divina creatura ferita a morte dal dramma della sua esistenza, ma l’immagine di una donna costretta, forse condannata, a diventare ancora oggi succulento cibo per le nostre fameliche bocche, nettare per la nostra (dis)umana sete di sangue, sublime preda dei nostri appetiti, definitivo capro espiatorio delle nostre stesse colpe.

Attorno a lei, incantevolmente ed esemplarmente interpretato da Debora Bernardi (una divina Dolly), Stefano Santospago (un magnifico Oblonskij), gli unici due che, con iconoclastica misura, riescono lodevolmente a distaccarsi da una recitazione ad impronta classicheggiante, Mersila Sokoli (Kitty), Giovanna Mangiù (Betsy), Irene Tetto (Lidija), Paolo Serra (Karenin), Giacinto Palmarini (Vronskij) e Francesco Biscione (Levin), si muove tutto il piccolo irrisolto mondo antico che Tolstòj ha immaginato: riconoscerlo e riconoscervisi è un attimo, e ci si ritrova, immediatamente e quasi senza accorgersene, ad indagare su se stessi.

Pasquale Attolico
Foto dalla pagina web della Compagnia

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