Un necessario e doveroso tributo che si fa fuoco politico, denuncia sociale, grido di dolore: Nichi Vendola e Carmela Vincenti celebrano al Teatro Piccinni di Bari il centenario della nascita di Rocco Scotellaro con “È fatto giorno”

“Abbiamo il collo duro, la faccia di terra abbiamo, e le braccia di legna secca colore dei mattoni”.

Non è canto malinconico, memoria dolente, poesia nascosta nell’esistenza di ultimi. Le parole di Rocco Scotellaro, figlio della Lucania del primo dopoguerra, sono fuoco politico, denuncia sociale, grido di dolore, disincanto.

Bruciano, come brucia la vita di un uomo che, nel breve dipanarsi della sua esistenza, scrive una pagina alta di impegno civile e politico.

Il 15 dicembre, nel centenario della nascita e nel 70° anniversario della morte (Portici, 1953), Nichi Vendola e Carmela Vincenti celebrano in un reading a due voci un grande intellettuale e poeta del Sud, politico e amministratore coraggioso: la sua vita troppo breve (muore a 30 anni per un infarto) è una avventura appassionata che parla di riscatto, di disperazione e speranza, di lotta e impegno, di slancio quasi evangelico verso gli oppressi.

Lo spettacolo “È fatto giorno. Un secolo di Scotellaro” (fuori abbonamento nell’ambito della stagione teatrale “Altrimondi.  2023-24” del Comune di Bari, Assessorato alla Cultura, organizzata insieme al Teatro Pubblico Pugliese) non è un atto commemorativo, ma il disvelamento di una personalità complessa e ricca, profonda e dinamica. Ben lontano dall’immagine quasi naïf del poeta-contadino o del Sindaco illuminato del comune di Tricarico (a soli 23 anni), Rocco Scotellaro è tutto questo, ma anche molto altro.

Nichi Vendola sceglie le poesie che attengono all’impegno civile e politico, al riscatto dei contadini del Sud nel secondo dopoguerra. Il sipario e il racconto si aprono con le immagini tratte dal documentario di Carlo Lizzani “Nel Mezzogiorno qualcosa è cambiato”, del 1949. Immagini terribili, perché le sequenze proposte non sono quelle che aprono e chiudono il lavoro, e che parlano tutto sommato di un fermento nuovo e di lotta di classe: l’incontro tra delegati che discutono del presente e del futuro, l’organizzazione sindacale nelle fabbriche, la nuova forza che muove le coscienze degli operai, i contadini che occupano le terre abbandonate. Quelle scelte da Vendola, che scorrono crude, sono la realtà dei vicoli di Napoli, di Cerignola e dei Sassi di Matera. Miseria, promiscuità odiosa e odiata, vite come di animali, senza la dignità del pudore, del privato, esistenze “agre e spoglie”. Ma soprattutto l’incapacità di pensare ad un’altra vita possibile, perché non si può sognare ciò di cui si ignora l’esistenza. E infine, la totale estraneità alla Storia, come una separazione netta e profonda dalle vicende del mondo circostante.

“Che fatica nascere in quella lontananza, sudando la vita”.

Vendola pronuncia i versi di Scotellaro tirandoli fuori da quello che ci è sembrato un sincero processo di interiorizzazione e di intima elaborazione, mentre il controcanto alla poesia è affidato a Carmela Vincenti, voce di Franca Armento, madre di Rocco. È lei che canta la vicenda drammatica, ma al tempo stesso inebriante, di suo figlio. È lei che lo segue da lontano, preoccupata per i suoi slanci, ma al tempo stesso fiera, in un rapporto spigoloso, non sempre facile, a tratti aspro e sofferto.

È lei che racconta di questo giovane che parlava al popolo, che usava i suoi soldi per i poveri che bussavano alla porta, che decide di mettere su un ospedale lì dove nulla esisteva. È lei che dice della sua elezione a sindaco, delle false accuse di truffa e associazione a delinquere, per le quali Rocco viene rinchiuso nel carcere di Matera per 45 giorni (1950) prima di essere totalmente prosciolto. È lei che parla del suo sconforto, ma anche della svolta che lo vede accettare la proposta di Mario Rossi Doria, che lo chiama a lavorare all’Osservatorio di Portici del mondo dell’agricoltura, un posto che Scotellaro giudica strategico nell’attività di riscatto ed emancipazione del popolo contadino nella lotta di classe. E sarà ancora lei a raccontarne la morte con le parole, ma soprattutto con i silenzi, col dolore muto che non trova ragione.

Non è una commemorazione quella di Vendola, ma una celebrazione, un “memento”, un necessario e doveroso tributo ad un figlio di quella Lucania che sembra immobile ma, come una sorgente sotterranea, è inserita anche grazie a lui, nel movimento della Storia.

La musica scandisce e colora il racconto. Il Trio Dambrosio (Antonio Dambrosio alle percussioni e agli arrangiamenti, Aldo Davide di Caterino al flauto, Vince Abbracciante alla fisarmonica) con misura ed eleganza sottolinea le fasi della vicenda umana e politica, propone brani originali e versioni libere e struggenti di “Bella Ciao” e de “L’internazionale”, accompagna le parole. Il palco è spoglio, rivestito solo delle luci che separano i passaggi del racconto.

Nessun orpello inutile, nessun lirismo, nessun ricamo. Tutto, dalle parole ai suoni, è come la terra narrata: essenziale, quasi aspro.

Il linguaggio è crudo, nel realismo descrittivo di una miseria che sembra senza speranza.

“All’alba stiamo zitti nelle piazze per essere comprati”.

Scotellaro riesce tuttavia a seminare il dubbio del riscatto possibile, a far immaginare un mondo nuovo che nonostante tutto si impone, fiore che squarcia la roccia. C’è una piccola luce nelle sue parole, capace di superare la disperazione, la miseria, l’immobilismo, la vita ai margini di chi non si è mai sentito parte della Storia.

Teatro pieno, pubblico attento, caldi e prolungati applausi anche a scena aperta (soprattutto quando la musica racconta la comune memoria di un credo condiviso) per una serata che è riconoscimento delle proprie radici attraverso la celebrazione di una figura complessa, capace di uno slancio moderno e rivoluzionario. Nichi Vendola ha toni asciutti, e così anche Carmela Vincenti, emozionante nel monologo finale e nei silenzi che raccontano il dolore. Per entrambi, la semplicità dei gesti è in verità ricchezza di contenuto. 

Al di là del messaggio civile e politico, del doveroso tributo, della memoria necessaria, uno spettacolo bello, misurato, essenziale. Un’armonia di parole, suoni e colori, un equilibrio  nei tempi scenici che lascia spazio alla riflessione, con pieni e vuoti attentamente bilanciati.

Un’occasione preziosa, per la quale siamo grati a Nichi Vendola e alla passione che gli ha permesso di unire poesia e politica, canto e denuncia. Grazie a lui è stato possibile  scoprire o riscoprire un cuore indomito, capace di una visione realistica ma nello stesso tempo audace, un figlio di questa terra dove si nasce, con fatica, nella lontananza. Un cuore che crede, che non smette di sperare, che nel buio riesce a vedere la luce, perché “è fatto giorno, siamo entrati in gioco anche noi con i panni e le scarpe e le facce che avevamo”.

Imma Covino
Foto dal web

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