Le isole alla deriva nell’oceano della vita e l’umanissimo potere salvifico della condivisione del dolore e dell’amore: “4000 miglia”, la pièce di Amy Herzog con la regia di Angela Ruozzi e la splendida interpretazione di Lucia Zotti, ha inaugurato la Stagione 2023.24 del Teatro Kismet di Bari

Cari, cari polli di allevamento, nutriti a colpi di musica e di rivoluzioni, innamorati dei colori accesi e delle grandi autostrade solitarie dove si possono inventare le Americhe più straordinarie, con le mani sui grandissimi volanti, l’odore dell’incenso e tanta atmosfera, spingendo sull’acceleratore col vento tutto addosso, finché non scoppia il cuore, tra un’allegria così forte e un bel senso di morte. Siete voi che continuate a rimbalzare da un paese all’altro, da una donna all’altra, inseguendo una forza che sembra lo slancio di impazzire, finché non scoppia il cuore. Cari, cari polli di allevamento che odiate ormai per frustrazione e non per scelta, con quell’espressione equivoca e sempre più stravolta, in questa vostra vita sbatacchiata che sembra una coda di lucertola tagliata, per riflesso involontario vi agitate e continuate ad urlare, finché non scoppia il cuore, tra un’allegria così forte e un bel senso di morte.” (Giorgio Gaber)

Le parole di questo capolavoro del Maestro Gaber non mi hanno mai abbandonato, ma sono furiosamente riaffiorate nella mia mente in tutta la loro deflagrante potenza grazie alla perfetta aderenza con Leo, il protagonista di “4000 miglia”, lo spettacolo di Amy Herzog, portato in Italia da Angela Ruozzi, che ha inaugurato tanto “Bagliori”, la più che ottima Stagione teatrale 2023.24 del Teatro Kismet Opera diretta da Teresa Ludovico, quanto, nel contempo, l’omaggio che lo stesso teatro barese ha dedicato alla sua fondatrice, la magnifica Lucia Zotti, riservandole una mini rassegna nell’annuale cartellone.

Produzione di rara grazia questa della Compagnia MaMiMò, in collaborazione con Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, che, pur nella non sempre facile fruizione, lascia trascorrere velocemente e piacevolmente i tanti minuti della sua durata, al punto che viene da chiedersi se i maggiori meriti siano da attribuire al testo originario, vincitore dell’Obie Award nel 2011, anno del suo debutto per il Lincoln Center Theater di New York, nonché finalista al Premio Pulitzer 2013 per la drammaturgia, all’appropriata traduzione di Monica Capuani e all’adattamento della Ruozzi o al convincente cast impegnato; a mio modesto parere, è la perfetta commistione di tutti i fattori che fa di questo dramma deliziosamente farsesco un piccolo gioiello, un inaspettato miracolo di autenticità, emozione e bellezza.

La nostra storia si svolge nell’arco di poche settimane. Leo, un entusiasta ecologista che ha attraversato l’America coast to coast a bordo della sua bicicletta (quello che da noi – per intenderci – forse sarebbe un novello Jovanotti), giunge in piena notte nel Greenwich Village alla porta dell’appartamento di sua nonna Vera, comunista per tradizione, vedova di un uomo che ha lasciato un’impronta culturale e politica nel Paese, obbligata ad una vita solitaria essendo morti tutti i suoi coetanei ad eccezione di una vicina con cui scambia irascibili telefonate per assicurarsi che nessuna delle due sia passata inavvertitamente a miglior vita, talmente sorpresa dall’arrivo del giovane da accoglierlo senza aver ‘indossato’ la dentiera. In realtà, lo sbalordimento della anziana donna deriva soprattutto dal fatto che Leo, a causa delle pesanti ripercussioni determinate da un appassionato bacio ad alto tasso alcoolemico dato alla sorella adottiva, ha interrotto da tempo ogni comunicazione con la sua famiglia, in particolare con sua madre, la figlia di Vera, rapporti che, nonostante i solleciti di sua nonna, non intende ripristinare. Effettivamente, anche la convivenza tra nonna e nipote, la cui durata pian piano si dilata, ha le sue complessità, in quanto Leo mal sopporta le incursioni di Vera nella sua vita privata, soprattutto quando lei tenta di comprendere, invero con poco tatto, quali rapporti ancora intercorrano tra lui e la sua vecchia fidanzata Beck, che, ad un certo punto, appare dal nulla solo per comunicare al disperato giovane la chiusura definitiva della loro relazione, accusandolo di essersi inaridito, soprattutto dopo la tragica morte del suo migliore amico durante la traversata in bicicletta, schiacciato da un rimorchio pieno di gabbie di polli (ecco Gaber che torna alla mente); il lutto, mai elaborato, è presenza sempre più ingombrante nella mente del ragazzo, che si autoavviterà in una pericolosa discesa negli inferi della psiche, al punto da non riuscire a sottrarsi alla sua fragilità emotiva nemmeno nell’eccitante incontro casuale con la conturbante Amanda, la quale, infine, si sottrarrà al prospettato ed anelato sesso occasionale. Eppure, proprio quando Leo – pollo d’allevamento che si era creduto gallo da battaglia – sembra essere ormai condannato ad andare definitivamente in pezzi, sarà la sempre più affiatata affinità e il riscoperto affetto di Vera a ricomporlo e a prepararlo ad un nuovo ritorno in società, forte di una nuova pacata consapevolezza che prenderà le mosse proprio dal discorso funebre che lo stesso si imporrà di redigere in memoria della vicina di sua nonna.

Pur essendo la cifra stilistica dell’intera pièce apparentemente sommessa, come ‘consigliano’ anche le consone luci di Giulia Pastore, le scene di Stefano Zullo (anche ai costumi) ed una magnifica colonna sonora che parte da una splendida versione di “Tenderly” della divina Billie Holiday, non vi è un solo momento di stanca nei serrati dialoghi, che appaiono come dei suggestivi fermo immagine di un piccolo film che la Ruozzi riesce a dirigere con rara sensibilità, in modo da far affiorare il dramma senza mai lasciarlo esplodere ma, semmai, implodere, saggiamente lasciando che i momenti di maggior coinvolgimento emotivo giungano dalla relazione tra nonna e nipote; infatti, nonostante continuino, sullo sfondo, ad intravedersi le dovute reminiscenze sull’ideologia del viaggio, tanto fisico quanto interiore, “on the road” di kerouachiana memoria, qui l’attenzione è irrevocabilmente spostata su di un incontro/scontro, più generazionale che familiare, tra chi la rivoluzione l’ha fatta davvero, senza fronzoli, ostentazioni e proselitismi, e chi l’ha solo immaginata, dichiarata, propagandata, anelata, rincorsa senza mai raggiungerla, ritrovandosi, infine, orfano della sua stessa idea di libertà, pur essendo entrambi però, in fondo, isole alla deriva ancora alla ricerca del loro definitivo posto nell’oceano e nel mondo. “4000 miglia” risulta, così, uno spettacolo onesto, sincero, vero, che riconcilia con il miglior teatro, non trasportando il pubblico in un altro inebriante mondo, ma inchiodandolo alle sedie con il semplice racconto di una microscopica storia, una di quelle che potrebbero verificarsi nell’intimità gratificante delle nostre stesse case, che fotografa, senza indulgere in voyeuristica curiosità e falsa compassione, un preciso spaccato di umanissima vita, innalzandosi a lezione sul potere salvifico della condivisione del dolore e dell’amore che mette a nudo l’anima e, soprattutto, ne rivela, stimola e forse addirittura arricchisce la capacità empatica.

Grosso merito della riuscita della pièce va naturalmente anche alla bravura degli interpreti.

Alessio Zirulia è un talento assoluto nella parte di Leo, che affronta con sano equilibrio ed ammirevole eleganza, descrivendone, intimamente ma anche fisicamente, la sofferenza segreta, corredando il suo personaggio di una trasparenza di sentimenti che non può non conquistare lo spettatore, il quale partecipa alla vicenda istintivamente immedesimandosi in quel ragazzo irrisolto, nel suo essere incessantemente – o quasi – sotto pressione, nel lasciarsi andare solo a piccoli deflagrazioni di rabbia, che sono soprattutto richieste di aiuto, risultando per lo più accomodante, apparentemente consapevole della sua condizione di giovane già vecchio e, forse, fallito, costretto a trascorrere i propri giorni senza un piano preciso per il futuro, sino all’auspicata rinascita.

Lorena Nacchia è una eccellente Beck, una giovane donna che ci viene restituita in tutta la sua disarmante ambiguità, incapace di una risoluzione ordinata, sempre in bilico tra scelte e incertezze, decisioni e pentimenti, ragione e sentimento.

Più acerba, ma non per questo meno incisiva, la recitazione di Annabella Lu nella fuggevole parte di Amanda, brava soprattutto nel sottolineare la sua strenua estraneità a quel piccolo mondo antico.

L’interpretazione di Lucia Zotti sfugge ad ogni possibile descrizione, salvo lasciarsi andare a tutti i possibili superlativi contenuti nella lingua italiana; la sua performance rimane impressa nella mente ben oltre la durata della rappresentazione, pur non conoscendo (o, forse, proprio per questo) momenti di istrionica recitazione votati alla conquista di ardimentose vette emotive ed atti a catturare (con la facilità che viene dal mestiere) la platea, ma facendosi oltremodo apprezzare per una incontaminata ed ineguagliabile abilità nel miscelare pathos ed umorismo in proporzioni perfette, con una padronanza espressiva vocale ed anche mimica, facciale e gestuale, ed una misura che solo le Grandi Signore del Teatro – a cui lei indubbiamente appartiene – hanno saputo mostrarci.

Grazie alla sua Arte recitativa, possiamo infine affermare di conoscere tanto intimamente quanto profondamente Vera, una donna compiuta, pregna di un pragmatismo distaccato ma partecipe, che non vuole, non sa e non può rassegnarsi all’apatia del nipote, mentre, al contrario, in lei anche la consapevolezza, con l’avanzamento dell’età, dell’indebolimento dei sensi, che spesso non le consentono di far fluire facilmente le parole o di ricordare dove ha riposto questo o quell’oggetto, è del tutto priva di autocommiserazione o di nefaste zone d’ombra psicologiche, ma viene affrontata con una definitiva quanto sublime leggerezza di stampo calviniano, con un tenue umorismo e una misurata ironia che la portano finanche, complice uno spinello, a sballarsi in compagnia di Leo in uno dei quadri più divertenti dello spettacolo.

Quello della Zotti è Teatro nella sua forma più alta e compiuta: cattura, conquista, affascina, ammalia e seduce, al punto che, al termine dello spettacolo, dimentico della finzione scenica, ti andrebbe di prendertene cura o, meglio, di chiederle di adottarti al pari di quel suo nipote sul palco e portarti via con lei.

Pasquale Attolico
Foto dal sito
dell’Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale

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