Affascina nonostante un finale controverso l'”Otello” di Giuseppe Verdi con la regia di Francesco Micheli inserito nel cartellone della Stagione d’Opera della Fondazione Teatro Petruzzelli di Bari

Questa non è solo la commedia che si vede e che si sente; ma anche la commedia che non si vede e non si sente. Questa non è solo la commedia di ciò che si sa, ma anche di ciò che non si sa. Questa non è soltanto la commedia delle bugie che si dicono, ma anche della verità che non si dice.” (Pier Paolo Pasolini)

Dimmelo! Dimmelo ora che mi ami. Ora che stringi le tue mani attorno al mio collo. Con forza. Con odio. Diranno che Otello è un uomo passionale. Un uomo che ama profondamente! Bugiardi! Otello è l’emblema della cecità. Di chi è incapace di vedere. Di chi paradossalmente vede quello che non c’è. Otello ha il terrore che venga scalfita la sua immagine così insulsa, così precaria. Otello è se stesso che ama. Solo se stesso. Dimmelo ora che mi ami, diamine! Guarda i miei occhi che stanno per chiudersi e dimmelo ora, mentre ti dono anche l’ultimo respiro che esala da questa bocca che fino a ieri hai baciato.” (Rita Lopez)

Ogniqualvolta ci si confronta con una messa in scena dell’“Otello”, sia essa ispirata alla tragedia shakespeariana o all’opera verdiana, non è possibile esimersi dal chiedersi chi possa esserne considerato il vero protagonista. Ma se nei propositi del Bardo appare quasi lapalissiano che il ruolo principale fosse affidato a Jago, identificato nel male assoluto o, come ha detto Benedetto Croce, “non il male commesso per un sogno di grandezza, non il male per l’egoistico soddisfacimento delle proprie voglie, ma il male per il male, compiuto quasi per un bisogno artistico, per attuare il proprio essere e sentirlo potente e denominatore e distruttore anche nella subordinata condizione sociale in cui esso è posto”, più difficile appare comprendere gli intenti del Genio di Busseto, agli occhi del quale lo stesso Jago diventa un mero strumento del destino, un mezzo attraverso il quale si possa compiere il disegno del fato o di Dio stesso (una lettura che ritroviamo peraltro in talune analisi della figura di Giuda Iscariota), come sta a testimoniare il pagano “Credo” del secondo atto in cui il bugiardo traditore quasi si giustifica della sua negatività innata, cosicché il tormento d’essere alfiere e non capitano è solo un pretesto per dare sfogo alla sua oscura natura.

E che dire di Otello? Verdi sottolinea il suo continuo passaggio dal trionfo all’insicurezza del non essere accettato in quanto straniero, estraneo, diverso, “altro”, dall’estasi dell’amore per la dolcissima fanciulla, che l’ammirava ed insieme ne aveva pietà, al tormento del sentirsi legato alla croce per la gelosia, che lo spinge ad un disperato, quasi blasfemo, dialogo con Dio, dalla impietosa e fatale stretta al collo dell’incolpevole amata all’ultimo dolce quanto disperato bacio, sempre tratteggiando questi sentimenti con melodie di inedita intensità, così come accarezza con le note l’eterea Desdemona, ben più padrona della scena rispetto all’originale shakespeariano, come a cercare e trovare una sua recondita poetica nella stessa frase musicale, come accade nella sublime “Ave Maria” dell’atto finale.

Quel che è certo è che la penultima Opera di Giuseppe Verdi, composta a ben diciassette anni di distanza dalla precedente “Aida” (“il posto che teneva in me era così grande che ne sento ora il vuoto enorme” dirà il Maestro dopo averla partorita), presenta i maggiori sprazzi di modernità di tutta la sua produzione, pur essendo senza dubbio la più calata nei dettami della musica del Settecento, per cui già dopo la prima scaligera del 5 febbraio 1887 si parlò di ispirazione wagneriana, soprattutto a causa della assenza delle strutture chiuse, ma anche di collegamenti con la produzione di Scarlatti, a partire da quello straordinario irrisolto primo accordo, geniale esempio di sperimentazione che sarà ripreso, tre anni dopo, da Pietro Mascagni per aprire la sua “Cavalleria Rusticana”, in cui si passa dalla paura per le sorti del Moro al glorioso “Esultate”, caratteristiche che ne fanno una creazione davvero unica, in cui la musica del Maestro, forse come mai prima di allora, complice l’ottimo libretto di Arrigo Boito, non solo riesce a scandagliare l’animo dei personaggi tutti in modo sì profondo da farne sortire ogni più recondito spasimo, cogliendone la vera essenza e restituendo loro una inedita umanità, ma allarga la propria analisi ad ogni elemento presente in scena, non ultime le ripercussioni psicologiche, anche le più esacerbate e distruttive, di ogni umano agire, riuscendo a far vibrare i cuori, agitare le coscienze, avvincere ed emozionare sino alle lacrime.

La apprezzata regia che Francesco Micheli firmò nel 2012 per il Teatro La Fenice di Venezia, oggi ripresa dalla Fondazione Teatro Petruzzelli come ultimo titolo in cartellone, prima della pausa estiva, della Stagione d’Opera e Balletto 2023, pur non essendo indenne dalla rappresentazione, anche con un uso sapiente di seducenti simboli, dell’eterna lotta tra l’amore e l’odio, o, meglio, tra il bene e ‘la banalità del male’, sembra preferire di tralasciare la questione razziale, qui risolta senza il posticcio utilizzo di fondotinta nero ma con un gioco di colori dei costumi di Silvia Aymonino, che, in un tripudio di abiti bianchi e, talvolta, azzurri, veste di scuro il solo ‘Moro’ e gli spettri tenebrosi che si agitano in lui e in Jago, focalizzando la propria attenzione sulla passione violenta, patologica, ‘tossica’ tra i due sposi maledetti, la cui fugace parabola vitale pare rispondere, come suggeriscono le splendide scenografie di Edoardo Sanchi e le molto suggestive luci di Fabio Barettin, più al disegno degli astri dello zodiaco che ad una reale possibilità di scelta. I destini di Desdemona ed Otello appartengono alle stelle, sembra dire Micheli, ed è lì – o, si direbbe oggi, in un altra realtà del ‘multiverso’ – che pare farli assurgere al termine di una riuscitissima rappresentazione con una personalissima visione, in un assai discutibile epilogo che nel suo cercare, sempre per dirla con Croce, “non la condanna mista di pietà, non l’orrore per l’ipocrisia e per la crudeltà, ma lo stupore”, è apparso a chi scrive del tutto inaccettabile, ancor più negli angosciosi, funesti e tremendi tempi di continui femminicidi che ci è dato in sorte di vivere, in cui la sacra vita femminile sembra non avere più alcun valore; ammesso e non concesso (come avrebbe detto Totò, che pure fu un inimitabile ed irraggiungibile Jago per Pasolini) che quando fa apparire lo spettro della donna per accompagnare, in estremo afflato di amorevole perdono già dichiarato alla governante in punto di morte tentando di scagionare l’omicida autoaccusandosi del proprio improbabile suicidio, il congiunto verso la morte, immediatamente prendendone per mano l’anima, il regista voglia realizzare una sorta di ultraterreno “omnia vincit amor”, non si potrà, dopo un primo istante di emozione per l’ottima resa visiva, non esserne contrariati, infastiditi, disturbati, salvo essere assolutamente e totalmente sordi alle devastanti tragedie reali e, spesso, anch’esse familiari che infestano il nostro quotidiano.

In ogni caso, quest’unica nota stonata non è riuscita ad inficiare l’ottima resa totale di una pièce che ha avuto un assoluto punto di forza nella prova superba dell’Orchestra, condotta dal suo Direttore in carica Giacomo Sagripanti, e del Coro del Teatro Petruzzelli, come sempre mirabilmente preparato da Fabrizio Cassi, capaci di restituirci uno stile strumentale e vocale del tutto appropriato alla pagina verdiana, dall’irruente spirito narrativo, pregno di oscillanti linee cromatiche, sonorità rilucenti e nitida varietà di colori di pregevolissima fattura, riuscendo a rendere appieno ogni sfumatura contenuta nel pentagramma. Il cast, pregevole in ogni sua componente, ha trovato la sua punta di diamante nella performance di Vittoria Yeo; il soprano coreano è una sublime Desdemona, con carattere e femminilità anche nella recitazione, capace di dipingere un personaggio volitivo e deciso, che osa opporsi al suo aguzzino andando caparbiamente e fieramente verso la morte, convincente in ogni intervento vocale, addirittura perfetta ne “La canzone del salice” e, soprattutto, nella già citata “Ave Maria”, intense ed emozionanti, con filati finissimi e di grande morbidezza che lasciano trasparire l’amore, il dolore, la preghiera, la morte, il perdono e la redenzione, in un attimo fuggente che non dimenticheremo facilmente. Non le è da meno l’Otello di Marco Berti, ormai assolutamente a suo agio nel ruolo; la statura eroica ed il titanismo vocale che si richiedono per il personaggio non sono da tutti, soprattutto per quanto attiene la robustezza nel reggere le lunghe frasi legate di cui il canto è denso, ma il tenore sembra essere ormai padrone di ogni aspetto del personaggio, di cui, con sagacia interpretativa, riesce a rendere cromaticamente ogni palpito, da quelli più introspettivi a quelli declamati, schiacciato tra l’eroismo del guerriero, l’innocenza dell’amante amato, la disillusione del coniuge tradito e le fragilità dell’uomo, prima di lasciarsi esplodere nel suo folle impeto distruttivo. Appena un po’ in ritardo nella corsa al podio è apparso lo Jago di Vladimir Stoyanov, disinvolto, interessante tanto nelle intenzioni interpretative quanto nei risultati vocali, ma non sempre capace di farsi trovare pronto nell’improba prova affidatagli. Da lodare anche le interpretazioni di Zizhao Guo (Cassio), Maria Luisa de Freitas (Emilia), Antoni Lliteres (Roderigo), Alberto Petricca (Montano), Viktor Shevchenko (Lodovico) e Gianfranco Cappelluti (un araldo).

Si replica oggi, domenica 25 giugno alle ore 18.00, martedì 27 giugno alle 20.30, giovedì 29 giugno alle 18.00.

Pasquale Attolico
Foto di Clarissa Lapolla photography
per gentile concessione della Fondazione Teatro Petruzzelli

Condividi

1 commento su “Affascina nonostante un finale controverso l'”Otello” di Giuseppe Verdi con la regia di Francesco Micheli inserito nel cartellone della Stagione d’Opera della Fondazione Teatro Petruzzelli di Bari

  1. Donato Defonte Rispondi

    Si ho visto le prove del 21 e la prima grazie all’amico Marco Berti
    Ed e stata una tupé da recita
    Viva verdi Petruzzelli Marco Berti te ire stentoriano e tutta la ciurma!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.