Con “Rapito”, la maestria di Marco Bellocchio riesce a trasformare una storia piccola nella Grande Storia

I film – spero non si annoieranno i miei pochi lettori se mi ripeto – raccontano storie piccole o grandi e, salvo qualche rara eccezione, non riescono a raccontare la storia, abbia o meno la S maiuscola.

Riuscire però a trovare un film dove la cronaca, sia pure adattata alle esigenze della pellicola, si fa storia e aiuta a capire lo spirito del tempo, permette di riflettere sull’evento e sulle mille sfaccettature che il racconto ci consegna.

Non è il libro “Cuore”, al di là del facile sentimentalismo di cui è stato sempre circondato, dove il racconto ha spesso una finalità didascalica. Né uno dei meravigliosi film di Bertolucci, che sfrutta lo strumento per raccontare la sua versione politica della storia. Sto parlando di “Rapito“, l’ultimo straordinario film del Maestro Marco Bellocchio (che il Cirano Post ha intervistato assieme ai protagonisti Fausto Russo Alesi e Barbara Ronchi, come riportato in altra sezione del giornale).

Qui Bellocchio riesce in un esperimento difficile. Raccogliere il testimone dalla carta e gettare il suo, e il nostro sguardo, su uno spicchio della storia collettiva di questo popolo. Attraverso i personaggi, tutti storicamente esistiti, ci conduce nel perenne confronto tra alcune delle anime di questo paese. La buonafede o meglio la convinzione di essere nel giusto da parte di alcuni. L’incapacità di opporsi ad un’evidente ingiustizia. L’accanimento nei confronti di persone che rappresentano una minoranza, in questo caso di religione ebraica. Tutti questi elementi generano il comportamento che modifica per sempre le vite e, anche, la storia.

Non sappiamo quanto abbia segnato la volontà politica dell’opinione pubblica italiana né quanto abbia realmente inciso la vicenda di Edgardo Mortara sull’isolamento politico dello Stato della Chiesa alla vigilia di Porta Pia. Il racconto però ci accompagna in uno spazio narrativo in cui un bambino, suo malgrado, diventa un simbolo politico. Per la Chiesa Cattolica, un’anima salvata. Per i suoi avversari politici, un ostaggio da liberare e finalmente restituire alla famiglia.

Eppure, nella lotta politica, nello scontro di convinzioni e di certezze, nell’utilizzo della vicenda per “fare giurisprudenza”, tutti i combattenti si sono dimenticati del bambino e della sua fragile necessità di amare e di essere amato per quello che è e non per quello che rappresenta (ebreo o cristiano che sia).

La buonafede, la convinzione, la religione (qualunque essa sia) si sono dimenticate della persona.

E’ in questa sfaccettatura umana e narrativa che Bellocchio, come nell’altrettanto magnifico Esterno Notte, ci mostra l’altra faccia della medaglia.

L’istinto di sopravvivenza, la necessità di adattarsi, spingono la vittima a armonizzare se stesso con il carnefice. Non ci sarà, nel film, vera adesione, quanto piuttosto una vita passata nel bisogno di sicurezza dopo il traumatico abbandono della casa. E’ il Papa che, in qualche misura, sostituirà l’irremovibile madre, garantendo la certezza e la stabilità affettiva.

Bellocchio ci racconta la Storia attraverso una storia che, emblematicamente, rappresenta lo scontro fra certezze, granitiche fino alla morte. Pronte a tutto pur di riaffermare la propria verità senza vero amore, in questo caso, per il bambino. Solo il padre, nel film, sarà pronto a rinunciare a tutto pur di riavere Edgardo. L’amore oltre la fermezza.

Della regia nulla si può dire. Alla maestria di Bellocchio siamo ormai assuefatti.

L’elenco degli attori è lungo e tutti, ben guidati, meritano un applauso. Emerge con bravura e costanza Paolo Pierobon che interpreta Pio IX senza mai cedere all’istrionismo. Fausto Russo Alesi e Barbara Ronchi, rispettivamente il padre e la madre di Edgardo Mortara, si muovono con naturalezza riuscendo trasmettere, senza esagerare, i sentimenti delle persone che interpretano. Filippo Timi, nel ruolo, solo apparentemente secondario, del cardinale Giacomo Antonelli, continua il suo percorso di maturità artistica piena. Come sempre incredibilmente perfetto, Fabrizio Gifuni nel ruolo del domenicano Piergaetano Feletti, inquisitore di Bologna. Cieco, ma non inconsapevole, strumento di oppressione. Preciso, anche se ormai forse un po’ incastrato nella tipologia di personaggio romano, Paolo Calabresi, il capo della comunità ebraica. Infine, non me ne vogliano gli altri, Bruno Cariello nella parte dell’apparente bonario, in realtà inflessibile, poliziotto che obbedendo eseguirà il rapimento. Si potrebbe dire la perfetta rappresentazione del “tengo famiglia”. Il piccolo ed il grande Edgardo sono impersonati da Enea Sala, da bambino, e da Leonardo Maltese, da giovane, quest’ultimo ormai non più solo una promessa, anche se tende ad una certa fissità espressiva.

Le musiche di Fabio Massimo Capogrosso, come in Esterno notte (altra storia di rapimento), non si limitano ad accompagnare supinamente il racconto, ma in più occasioni si fanno protagoniste senza però sovrastare. Così la fotografia di Francesco Di Giacomo, che riesce a giocare sulle ombre ed i chiaroscuri rendendo le atmosfere in maniera coinvolgente.

Al cinema.
Da non perdere.

Marco Preverin

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