“Incroci”, la rassegna di “teatri a confronto” ideata dalla Compagnia Diaghilev, ha ospitato la straordinaria prova d’attrice e regista di Silvia Frasson ne “Le voci della sera” dal romanzo di Natalia Ginzburg

Dal 12 maggio al 18 giugno all’Auditorium Vallisa la Compagnia Diaghilev ospita spettacoli di altre realtà produttive nella rassegna Incroci. Teatri a confronto. Nove spettacoli e ventiquattro rappresentazioni (più due workshop): una preziosa occasione per aprirsi a esperienze e lavori di compagnie con storie e personalità diverse, incontri sempre nel segno di una qualità interpretativa di tutto rispetto.

Dopo Perros d’Espana, con Paolo Panaro, che fa un po’ da ponte tra questa rassegna e Teatro Studio 2022-2023, appena conclusa, il primo appuntamento è stato il solo di Silvia Frasson, attrice e autrice toscana che ha alle spalle già diverse esperienze di teatro-narrazione, che ha portato in scena Le voci della sera, tratto da un romanzo breve di Natalia Ginzburg, pièce di cui è anche regista.

Silvia Frasson scopre Natalia Ginzburg da ragazzina. Se ne innamora perché sente che la scrittrice possiede le parole che dicono esattamente le sensazioni e i sentimenti che lei ha dentro. Legge di lei tutto quello che può, ma quel romanzo breve scritto nel 1961, Le voci della sera (preludio di Lessico familiare con cui nel ‘63 avrebbe vinto lo Strega) le entra nel cuore e le si appiccica addosso. Intanto la vita scorre. A quarant’anni chiede ad Andrea Ginzburg, figlio di Natalia, i diritti; scopre che nessuno lo hai mai rappresentato, e ne cura l’adattamento scenico. Ma il progetto non trova nessuno disposto a offrirgli un palcoscenico. Passano altri anni, altri spettacoli, altre esperienze di vita e di teatro. E finalmente, nell’aprile dello scorso anno, Le voci della sera sale su un palco e comincia il suo viaggio nei teatri d’Italia.

È dunque la realizzazione di un sogno che viene da lontano, uno spettacolo di una dolcezza e delicatezza infinite, una interpretazione struggente, tenera, avvincente, un’esperienza di teatro narrazione in cui tutti i personaggi passano attraverso la voce di un’unica attrice che riempie la scena e porta lo spettatore nella storia di un paese, di una famiglia, di una giovane donna, di un amore.

Elsa ha trent’anni e non si è ancora sposata, con grande cruccio di sua madre per la quale il matrimonio è per una donna il destino più bello. Ed è proprio la voce petulante e pettegola di Matilde che apre la scena e ci catapulta nella vita di un piccolo paese, invaso dai miasmi della fabbrica di proprietà della famiglia Balotta, le cui vicende occupano tutta la prima parte del racconto.

La figura di Elsa, che in apertura resta in disparte e si limita a fare da contrappunto al cicaleggio materno, quasi fosse timorosa di disturbare, pian piano comincia a farsi spazio, svelando la sua storia d’amore con uno dei figli del proprietario della fabbrica, Tommasino. Da questo momento diventa insieme a lui unica protagonista del racconto. La loro è una storia d’amore nascosta: due incontri alla settimana in una stanza presa in affitto nella vicina città, lunghe passeggiate e una sensazione di libertà. Un amore romantico e dolcissimo, quello di Elsa, mentre il sentimento di Tommasino è asciutto, disincantato. “Io non ti sposerò mai” ripete a Elsa. “Ti basta?”. “Me lo faccio bastare” è la disarmante risposta sussurrata dalla giovane donna, che accetta da lui questo amore autentico, ancorché parziale. La storia va avanti, finché Tommasino, intuendo il dolore di Elsa, decide di fare quei passi imposti dalle convenzioni sociali: va a conoscere i genitori di lei, chiede la sua mano, comincia a parlare di matrimonio. Fa tutto quello che ci si aspetta da lui, ben sapendo che sta abbracciando una routine, mentre tutto era più bello quando ogni incontro era frutto di una libera scelta. E anche Elsa sente il peso delle convenzioni che da un lato rassicurano, perché danno un nome certo alle cose e rendono esperienze e situazioni riconoscibili, e dall’altro appiattiscono persone e sentimenti, in una omologazione che impoverisce, che svilisce, che riduce tutto ad una sola dimensione. Meglio allora gli incontri furtivi, meglio un amore imperfetto ma sincero, piuttosto che un matrimonio destinato a diventare anticamera di vita soffocante e infelice.

C’era sempre stata una distanza tra i sentimenti di lui e quelli di lei. “Non ti sposerò mai. Ti basta?”. “Me lo faccio bastare”, ma quella parsimonia, pur accettata all’inizio, nel tempo aveva mostrato il suo limite, si era rivelata incapace di soddisfare il suo bisogno d’amore. E tuttavia l’assunzione di quella identità utile ad ottenere il consenso sociale si era rivelata altrettanto difficile da vivere.

Elsa allora sceglie.

Restituisce l’anello a Tommasino, in un coraggioso rifiuto della mediocrità. Non si accontenta, non si adegua. Accetta di vivere un grande dolore nel momento in cui si accorge che in quella situazione muore la sua e l’altrui felicità.

Sostituisce il “meglio di niente” con “meglio niente”.

È un atto d’amore verso se stessa che la porta a non accontentarsi, a non adeguarsi ad una liturgia che altri scrivono per lei. Rinuncia ad un ruolo sociale accettato e condiviso perché quella condizione non sazia la sua sete di pienezza, il suo bisogno di sentimenti profondi.

Silvia Frasson abita il corpo e il cuore di Elsa, ci fa innamorare di lei e ci restituisce un personaggio tenero e coraggioso, ingenuo e puro, ma capace di leggere nel profondo la realtà e il cuore dell’amato. Ci racconta una donna che sceglie la solitudine piuttosto che la mediocrità, il dolore piuttosto che l’accontentarsi.

Sola sul palcoscenico, si fa voce di tutti i personaggi con una meravigliosa capacità di passare attraverso registri, caratteri, personalità differenti. Lo spettacolo scorre senza mai perdere ritmo, e questo anche grazie alla scrittura del testo che se da un lato conserva il sapore e il colore del piccolo mondo nel quale il racconto è ambientato, dall’altro fa emergere l’immantinenza dei sentimenti, palpitanti e attuali oggi come allora.

Una bellissima prova di autrice e d’attrice: grande generosità e, alla fine dello spettacolo, la cortesia graziosa con cui si concede al pubblico per farsi abbracciare, per rispondere a domande, per raccontare ancora e ancora, come se, dopo un’ora e mezzo da sola sul palco, ci fosse ancora qualcosa da dire e da dare, qualcosa che servisse a farci amare di più la sua Elsa.

Se vi capiterà, andate a vedere Le voci della sera.
Vi farete un bel regalo.

Imma Covino
Foto dalle pagine web dell’artista

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