“Quando” è, nel bene e nel male, il più veltroniano dei film di Walter Veltroni

Sappiamo tutti che rivedere se stessi con gli occhi della memoria è sempre un esercizio difficile e pieno di trappole. Nella nostra memoria gli incontri, i rapporti, le persone e le vicende che ci hanno visto protagonisti o comprimari assumono quella luce lievemente sfumata delle vecchie fotografie (anche quelle digitali). Grazie alla nostra capacità di sopravvivere, tutto è avvolto da un fumo non tossico in cui il passato è comunque ricco di eventi positivi e, nella nostra memoria, povero di tutto quello che ci intristisce la vita.

Dal punto di vista narrativo lo spunto è comune a tanti altri film ed opere. Saltare a piè pari la vita di ogni giorno per vedere il futuro. Magari scoprire che le parecchie innovazioni, alla fine, non modernizzano poi così tanto perché la vita è passata senza i punti di riferimento e la tecnologia non sostituisce le persone.

Così Walter Veltroni, prima con il libro e poi con il film “Quando“, ci racconta quanto sia straniante risvegliarsi dopo 31 anni per un comunista che, colto proditoriamente da un palo al funerale di Berlinguer (luogo e tempo iconici), deve riadattarsi al mondo attuale. Passare dall’analogico al digitale senza soluzione di continuità è un po’ come affrontare il post mortem quasi con spirito dantesco e sapere, inaspettatamente, cosa c’è stato dietro l’angolo.

Così Walter tira fuori dal cappello un Virgilio al femminile, e per di più in tonaca, che accompagna il nostro nel sentiero della memoria e nella via della rinascita. Non appare solo come una scelta stilistica ma, sembra, con la volontà di trasporre in maniera contemporanea alcune idee politiche dell’autore. Non siamo in presenza di un proletario che, risvegliatosi da coma ultradecennale, viene dimesso e poi, come spesso accade in Italia, si organizza da sé. Qui una specie di “reduce” trova conforto, ausilio e supporto in una struttura evidentemente privata e certamente di alto livello economico. La funzione narrativa dei luoghi e dell’ambientazione complessiva quindi non pare essere casuale ma piuttosto la realizzazione di un progetto tutto veltroniano.
Tutto però si confonde e scivola nel melenso quando il nostro incontra i vecchi compagni. Tutti gentili, educati, signorili e distinti. Si parla senza interrompere, manifestando con rispetto e fratellanza il proprio pensiero. Una comunità più simile ad un sogno che alla realtà. Una specie di come eravamo, sì, ma belli.

Tutto il film si muove su questo registro di lieve atmosfera, lieve nostalgia, lieve approfondimento dei personaggi, cui non si sottrae nemmeno il protagonista. La regia è senza strappi e gli attori si muovono con sufficiente naturalezza sullo schermo.
Neri Marcorè, nella parte di Giovanni, Valeria Solarino, nella parte di Giulia, la suora jogger, Fabrizio Ciavoni, nella parte di Leo, combattono un triello attoriale nel quale i due comprimari prima si alternano e poi si uniscono al nostro Giovanni. Bravi senza approfondire, la rabbia, la meraviglia, una qualche forma di ammirazione o delusione sono mostrate senza particolari fremiti. In maniera lieve, aerea.

Anche Olivia Corsini e Gian Marco Tognazzi si adeguano allo stile complessivo del film e i sensi di colpa sono, forse, vissuti ma di certo molto poco mostrati. Dharma Mangia Woods, pur in un ruolo minore, quello della figlia mai conosciuta, rende un personaggio più credibile. Il suo monologo è, forse, la cosa migliore del film.

La fotografia di Davide Manca, la scenografia di Luca Servino, le musiche di Fabrizio Mancinelli: tutto perfettino. Non ci sono sbavature evidenti e non ci sono salti di fantasia o spinte ad una qualche forma di originalità.

Un film gentile, ma in certi momenti francamente troppo.
Un film di Walter Veltroni, insomma.

Marco Preverin

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