L’indagine psicologica del teatro di Arthur Schnitzler scava nel profondo con “Scena Madre”, la pièce rappresentata dalla Compagnia Diaghilev con la regia di Paolo Panaro e l’interpretazione di Antonella Genga

Ultimo appuntamento all’Auditorium Vallisa di Bari, per la rassegna Teatro Studio 2022/2023, con la Compagnia Diaghilev e la sua versione di Scena madre, atto unico di Arthur Shnitzler (adattamento e regia di Paolo Panaro).
L’opera fa parte di una trilogia di atti unici scritti tra il 1909 e il 1914, che porta il titolo di Commedia delle parole, e che comprende anche L’ora della verità e Baccanal. La trilogia è incentrata sulla problematica del rapporto coniugale, sulla difficoltà di trovare un punto di incontro tra due individualità che cercano invano una parvenza di armonia, trasformando il matrimonio in una scuola di solitudine (“Il matrimonio è la scuola della solitudine. Ma in essa non si impara abbastanza” scriveva l’autore).

Il drammaturgo austriaco, medico e psichiatra, che a partire dal 1893 aveva lasciato la professione per dedicarsi esclusivamente alla drammaturgia e che aveva conosciuto e assorbito le nuove suggestioni freudiane, usa in Scena madre la metafora del teatro per tratteggiare con amara ironia le dinamiche delle relazioni matrimoniali e sociali. Tra momenti di consapevolezza e calcoli di opportunità, i protagonisti percorrono strade dolorose che non sono in grado di abbandonare, abitano prigioni che soffocano e mortificano, provocando disperazione e senso di impotenza.
Sophie è la moglie di Konrad Herbot, primo attore di un importante teatro di Berlino, famoso per il suo successo sulle scene e per le sue infedeltà coniugali. Stanca dell’ennesimo tradimento, da due mesi ha lasciato il marito, ma viene convinta dall’impresario Falk a perdonarlo per l’ennesima volta e a tornare da lui. Troverà, però, non un marito pentito, ma un uomo che con una sincerità disarmante e addirittura brutale rivendicherà la necessità di essere così come è, un seduttore in grado di vedere solo se stesso, un bugiardo che arriva a credere alla sua stessa bugia, un narciso con risvolti infantili (“Gli attori rimangono bambini, Sophie. Io stesso non sono altro che un bambinone: sì, il tuo bambinone pazzo…”).

Il tema del conflitto interno all’attore, perennemente diviso tra l’essere e l’apparire, tra il vivere e il recitare, raccontato con toni drammatici da Pirandello (nella commedia in tre atti Trovarsi, del 1932) qui è tratteggiato quasi con leggerezza, con una ironia amara, sofisticata e a tratti quasi comica.
È questa la cifra scelta dalla regia di Paolo Panaro per questo atto unico che vede come protagonista Roberto Petruzzelli nel ruolo di Konrad Herbot. Il suo è un personaggio sfaccettato, vanesio e istrionico ma anche irrisolto e per certi aspetti infantile. A nostro avviso Petruzzelli riesce a rendere questa complessità in una interpretazione davvero riuscita: non ammicca al pubblico ma in qualche modo lo affascina, per poi dichiarargli con brutale candore i vizi e i vezzi ai quali non ha nessuna intenzione di rinunciare. Un accavallarsi di toni e registri diversi che usa con consumata arte, e che peraltro poggiano su un testo mirabilmente costruito e dialoghi che denunciano la grande capacità di indagine psicologica del drammaturgo austriaco.

Anche il personaggio di Sophie beneficia di questa scrittura così efficace e profonda, ed è davvero molto brava Antonella Genga nell’interpretare una donna che ha la capacità di guardare, capire, giudicare le persone e le situazioni, ma poi resta soggiogata, imprigionata in un ruolo dal quale non riesce a liberarsi. Ascoltando per caso il castello di bugie con cui il marito raggira il fidanzato della sua nuova fiamma, capisce che la menzogna è trama e ordito della sua personalità. Davanti alla sua sfacciata confessione è disarmata, schiantata, ma quel grido di ribellione che ci si aspetterebbe viene soffocato. E la Genga racconta bene nella rigidità del corpo e del viso questa disperata impotenza.

Pragmatico e senza scrupoli, attento al proprio tornaconto, è Paolo Panaro, convincente ed efficace nel ruolo dell’impresario Falk. Capace di usare l’arte della persuasione purché Herbot continui con le repliche del suo spettacolo e non abbia colpi di testa che mettano in pericolo il suo lavoro, il suo personaggio si muove abilmente in modo disincantato e cinico.

E infine convincente Antonio Carella nel ruolo del fidanzato tradito che cerca la verità in un drammatico dialogo con Herbot. Anche il suo personaggio, come gli altri, é ben costruito e interpretato con misura.

Ecco, quello che colpisce in questo atto unico è proprio l’analisi, l’indagine psicologica che Schnitzler ha saputo condurre e che rivela la modernità del suo teatro, luogo ove la finzione e il gioco delle parti scatenano negli uomini una sorta di gioco al massacro, in un teatrino accettato e condiviso che travolge le loro stesse emozioni e li rende prigionieri di un ruolo al quale non riescono a sottrarsi.

Dicevo in apertura che questo è l’ultimo appuntamento della Stagione per la rassegna Teatro Studio, e vorrei sottolineare la pregevolezza dei lavori portati in scena, la qualità degli attori che hanno calcato questo palcoscenico e infine, per lo spettatore, il piacere di fruire di una esperienza di ascolto e bellezza in un ambiente che lo pone a distanza ravvicinata con gli interpreti, in un certo senso dentro la scena stessa.
Il teatro come racconto ma anche come riflessione sui temi che da sempre accompagnano l’esistenza dell’uomo, ieri come oggi, come domani. Ci auguriamo che la prossima stagione sia ancora più bella.

Imma Covino
Foto dal sito della Compagnia

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.