Il pathos dell'”Attila” di Giuseppe Verdi con la regia di Daniele Abbado e la direzione di Renato Palumbo conquista il pubblico della Fondazione del Teatro Petruzzelli

Io vorrei che il giovane, quando si mette a scrivere, non pensasse mai ad essere né melodista, né realista, né idealista, né avvenirista, né tutti i diavoli che si portino queste pedanterie. La melodia e l’armonia non devono essere che mezzi nella mano dell’artista per fare della Musica, e se verrà un giorno in cui non si parlerà più né di melodia né di armonia né di scuole tedesche, italiane, né di passato né di avvenire, ecc., ecc., ecc., allora forse comincerà il regno dell’arte.” (Giuseppe Verdi)

Confesso di aver sempre nutrito serie difficoltà nell’individuare il cosiddetto “periodo minore” di un compositore, trovandola, di fatto, una pratica inconcludente, futile, vana, inutile, oziosa e, per certi versi, odiosa, qualcosa di simile a quella orrenda usanza delle ‘case perbene’ che, all’arrivo degli amici importanti, impone di confinare nello sgabuzzino il parente povero o vecchio e, comunque, ingombrante, inutile. Comprendendo – pur non adeguandomi – il continuo bisogno di etichettare e catalogare ogni forma d’arte, credo sia complicato, se non astruso, relegare semplicisticamente qualsivoglia opera di un artista in un periodo di minor valore; quando poi parliamo di Giuseppe Verdi, l’operazione si fa ancora più ardua, dato che non è davvero possibile, anche ad orecchio poco allenato, non ritrovare in ogni sua composizione la grandezza di un artista unico, immenso, ineguagliabile.

È vero: Verdi stesso definì, a posteriori, “anni di galera” quelli del suo primo periodo creativo, ammettendo di non riuscire a liberarsi da una certa intermittenza disomogenea nella composizione musicale, ancora poco avvezza a scavare nella psicologia dei personaggi; eppure è innegabile che in tutta la produzione giovanile del Genio di Busseto ci siano già i semi dei meravigliosi fiori che, di lì a poco, sbocceranno conquistando il mondo. Anche “Attila”, opera del 1846, ne ha al suo interno il virgulto; l’arrivo dei profughi nella laguna, il dialogo fra il generale romano Ezio ed Attila o l’incontro fra quest’ultimo e il ‘Vescovo di Roma’ Leone Magno che, preceduto da un toccante coro di vergini e fanciulle, giunge a bloccare l’unno alle soglie della città eterna, sono momenti che non sfigurano affatto nella migliore produzione lirica, e non solo di Verdi. Anzi, basterebbe il solo ascolto del vibrante e bellissimo Preludio orchestrale, carico di quella melodia che fu un vero marchio di fabbrica del Maestro, per convincersene: nell’intero popolo che, oppresso da Attila, piange desolato il suo destino, non può non riconoscersi quel sospiro collettivo di nostalgia e rassegnazione amara che avrà il suo culmine nel “Va’ pensiero” del “Nabucco”. Verdi, per la trasposizione del dramma “Attila re degli Unni” di Zacharias Werner, si affidò ancora una volta a colui che egli stesso considerava il primo poeta melodrammatico del suo tempo, probabilmente l’unico in grado di accostarsi ad un antico testo epico, vale a dire il librettista-musicista Temistocle Solera, cui si deve proprio il lungo periodo di gestazione dell’opera lirica che, con i suoi tre atti ed i già citati preludio e prologo, affronta l’iperbole del sovrano degli Unni, che nel pieno della sua gloria, all’indomani della conquista di Aquileia e della sofferta decisione di risparmiare Roma grazie all’intervento di Papa Leone I, viene tradito ed infine ucciso dalla amata Odabella.

Bene ha fatto, dunque, a mio modesto parere, la Fondazione del Teatro Petruzzelli ad inserire nel cartellone della Stagione d’Opera 2023 l’“Attila” – che, peraltro, a mia memoria, è andato in scena a Bari in anni passati solo in forma di concerto nello Spazio della Fiera del Levante adattato a sala teatrale a seguito dell’incendio del nostro Politeama – in questa rodata coproduzione del Teatro Comunale di Bologna con il Teatro Massimo di Palermo e, non ultimo, il Teatro La Fenice di Venezia, ove pure l’Opera debuttò il 17 marzo 1846, affidata alla sapiente lettura registica di Daniele Abbado, che giustamente dona tinte dark all’ambientazione, spostandola in uno scenario postbellico, se non da day after, di uniforme miseria  non solo materiale ma anche e soprattutto psicologica, di ideali, in cui gli ‘italici eroi’ sono largamente ridimensionati verso il basso, esprimendo tutta la loro contraddittorietà, falsità e cinismo, traditori più per genia che per scelta, al contrario dell’usurpatore sovrano straniero che, seppur impietoso, non sembra godere appieno della propria condizione di vincitore, apparendo leale sino all’estremo sacrificio. Grazie anche alle scene (davvero splendide quanto monumentali, a partire dallo sfondo che pare richiamare una enorme cartina geografica, per finire con le numerose travi che sembrano tenersi su magicamente), al disegno luci ed ai costumi di Gianni Carluccio, gli ultimi realizzati in coppia con Daniela Cernigliaro, ed ai movimenti scenici di Simona Bucci, Abbado costruisce una messa in scena di grande effetto, appassionante, coinvolgente, riuscendo anche, per quanto concessogli dal libretto, a tratteggiare, ritagliandone bene i contorni e le individualità, la psicologia dei personaggi, consegnandoci una regia di acclarata presa sul pubblico cui, forse, può essere imputato solo di affidarsi a un po’ troppi cambi di scena a sala illuminata a metà, che finiscono per spezzare quel pathos che, invece, è tra i punti di forza dell’intera rappresentazione.

Ma se, come unanimemente ritenuto, quest’opera può essere valorizzata ed apprezzata dal pubblico solo quando ci si imbatta in voci colme di personalità, occorre immediatamente ritenersi fortunati di aver potuto godere della presenza di un ottimo cast cui si deve gran parte del successo della serata, da condividersi certamente e dividersi equamente con la felicissima direzione del Maestro Renato Palumbo dell’Orchestra del Teatro Petruzzelli, in assoluto stato di grazia, e del Coro del Teatro, sempre magistralmente preparato dal maestro Fabrizio Cassi, salutato da una vera meritatissima ovazione al termine della Prima; anzi, si potrebbe finanche dire che le doti della bacchetta di Palumbo, ben note ed apprezzate dal pubblico del Petruzzelli, qui siano state esaltate, soprattutto per la sua capacità di armonizzare fraseggio e colori orchestrali con le difficoltà interpretative nascoste nel pentagramma, dedicando la medesima rara attenzione tanto agli aspetti cabalettistici quanto all’afflato epico ed elegiaco.

Alexander Vinogradov è un Attila possente, dotato di una emissione omogenea, morbida, timbrata, forse a suo agio più nelle note gravi che negli acuti, che gli consente di ammantare di nobiltà espressiva e credibilità scenica il suo personaggio, da cui riesce ad estrarre un’inedita visione che cela il dubbio del pensatore dietro la sicumera del condottiero.

Nei toni alti eccelle, invece, la Odabella di Leah Crocetto, la quale nella parte scritta da Verdi per i “polmoni d’acciaio di Sofia Löwe”, appare sublime, vibrante, capace di agilità espressiva e tempra drammatica come nell’eroina si è ascoltato di rado, innegabilmente dotata di caratura e di ampiezza vocale non comuni, dall’accento instancabile, vivo e trascinante, che, però, all’occorrenza riesce ad ammorbidire e sfumare con rara eleganza.

Di pari valore è certamente Fabio Sartori, un Foresto strabiliante, che ha raccolto applausi entusiastici, a volte addirittura osannanti, meraviglioso interprete dotato di tutte le qualità necessarie a rendere memorabile il suo personaggio, convincente ed elegante in ogni momento, perfetto nell’estrinsecazione di stati d’animo drammatici, irati, cupi, grazie anche ad una invidiabile estensione, ad una dizione scrupolosa e ad vocalità lucente, risonante, armonica.

Ottimo anche l’Ezio di Simone Piazzola, dotato di voce timbrata e poderosa, a suo agio tanto nelle note gravi quanto nei toni squillanti, grazie anche ad innegabili capacità interpretative.

Convincenti Andrea Schifaudo, che ha ben tratteggiato le intime diatribe dell’attendente unno Uldino che non tarderà a tradire il suo sovrano, e Dongho Kim, nel brevissimo ma suggestivo intervento in cui ha dato voce a Papa Leone.

Ovazioni meritate per tutti.
Repliche ancora oggi, domenica 23 aprile 2023 alle ore 18:00, mercoledì 26 aprile alle 20:30, venerdì 28 aprile alle 18:00.

Pasquale Attolico
Foto di Clarissa Lapolla
per gentile concessione della Fondazione Petruzzelli

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