L’accattivante versione di Teresa Ludovico dell'”Anfitrione” di Plauto seduce nuovamente il pubblico del Teatro Kismet di Bari

Chi sono io se non sono io? Quando guardo il mio uguale a me, vedo il mio aspetto, tale e quale, non c’è nulla di più simile a me! Io sono quello che sono sempre stato? Dov’è che sono morto? Dove l’ho perduta la mia persona? Il mio me può essere che l’abbia lasciato? Che io mi sia dimenticato? Chi è più disgraziato di me? Nessuno mi riconosce più e tutti mi sbeffeggiano a piacere. Non so più chi sono!

Queste sono le domande che pone Plauto nell’Anfitrione, opera in cinque atti e un prologo, scritta verso la fine del III secolo a.C. e rappresentata probabilmente intorno al 206 a.C.
Il doppio, la costruzione di un’identità fittizia, il furto dell’identità e la perdita del ruolo sociale ad essa connesso, ma anche la vulnerabilità dell’uomo nei confronti della divinità che gioca beffarda col suo destino: una tragicommedia, annuncia Mercurio nel prologo plautino, un nuovo genere che vede la coesistenza di divinità e comuni mortali.

La storia racconta del sommo Giove che, dopo essersi trasformato nelle più svariate forme animali, vegetali e naturali, decide per la prima volta di camuffarsi da uomo, prendendo le sembianze di Anfitrione per sedurne la bellissima e incorruttibile moglie Alcmena. Mercurio, per aiutare il padre, assume l’aspetto di Sosia, servo di Anfitrione: lo confonde, lo inganna, gli fa perdere ogni certezza su se stesso. Una trama maliziosa, un complicato gioco di equivoci in cui divinità capricciose e volubili agiscono benigne o nefaste travolgendo le vite dei comuni mortali.

Teresa Ludovico ha portato nuovamente in scena – a grande richiesta – al Teatro Kismet di Bari la sua personalissima versione dell’Anfitrione, curandone la scrittura e la regia: una pièce che negli ultimi anni ha mietuto successi su innumerevoli palcoscenici, nella quale, fatto salvo il mito, cambia completamente il contesto.
Qui Anfitrione e Alcmena sono malavitosi, protagonisti di una storia che quasi ricorda una sceneggiata napoletana. Lei, donna d’onore, accetta di sposare l’assassino del padre a patto che lui stermini la famiglia rivale e recuperi una preziosa collana e poi, fedele ai patti, lo ama e lo rispetta. Lui è un boss violento e arrogante che, una volta caduto nell’imbroglio di Giove, viene progressivamente privato del suo potere fino a ridursi a omm ’e niente. Se in Plauto si partiva per la battaglia, qui si tendono agguati in pizzeria. Un’ambientazione popolare, oseremmo dire trash, una storia che si svolge in un qualunque sud, tra Napoli, Bari e la Calabria, il che permette l’uso di una lingua dura, di un gergo di strada forte, che ben descrive un mondo dominato dalla violenza fisica, in cui la vendetta privata è l’unica forma di giustizia, secondo le dinamiche delle organizzazioni criminali.
Maestro di cerimonie anche qui è Mercurio, al quale è affidato il prologo, ma si tratta di una divinità en travesti, sdrucita, sfacciata, che in tacchi alti e abiti succinti conduce lo spettatore all’interno dell’ intrigo, usando fonemi rubati ai più disparati idiomi e ai dialetti meridionali. È lui che parla di tragicommedia, è lui che asseconda la lussuria di Giove dilatando il tempo della notte, è lui che confonde Sosia, servo di Anfitrione, facendogli perdere ogni certezza su se stesso.

Sul palco si alternano realtà e finzione, e l’incontro con il divino genera una dimensione onirica che altera il vero, lo confonde e lo moltiplica nel gioco degli specchi di Vincent Longuemare, che prima ancora dell’inizio fronteggiano il pubblico quasi ad annunciare che quello che sta per accadere lo riguarderà molto da vicino, che le vicende narrate in fondo parleranno di ciascuno di noi. L’impatto emotivo è forte, i dialoghi serrati: i corpi plastici e dinamici (guidati da Elisabetta Di Terlizzi) uniscono il gesto alla parola, anzi è la parola stessa che si fa movimento. I costumi di Cristina Bari e la stessa Ludovico sono maschere (con Giove, un manga giapponese vestito di anfibi, chiodo e Ray Ban a goccia). Le musiche di Michele Jamil Marzolla, eseguite dal vivo dal sassofono di Francesco Ludovico, sottolineano e separano i vari momenti della vicenda e nel finale assumono un carattere quasi circense, che ricorda i ritmi gitani di Bregovic. Il ritmo è serrato, quasi non lascia respiro. L’unica occasione in cui tirare il fiato e cambiare registro è data dalla scena che precede il finale, quando Anfitrione racconta la sua infanzia, gli abbracci della madre e la durezza del padre, e si ferma a pensare al figlio che verrà. Ma la realtà, con violenza beffarda, torna ben presto a governare la sua vita e i destini degli uomini, ne traccia l’impotenza di fronte al capriccio degli dei e lo costringe ad accettare l’esuberanza erotica della divinità ai danni della sua sposa.

Quella di Teresa Ludovico è un’opera corale, sensuale e ironica nello stesso tempo, con attori il cui corpo si fa parola, come si diceva prima, abitando la scena. Alessandro Lussiana è un seducente Mercurio, come del resto Giovanni Serratore nei panni di Giove. Ironia e sensualità guidano i loro gesti insieme alla prepotenza che nasce dall’essere dei e quindi arbitri dei destini degli uomini. Michele Schiano Di Cola è un Anfitrione cupo, violento, che ha come spalla perfetta Michele Cipriani, leggero ma incisivo sia nelle scene che lo vedono contrapposto a Mercurio, sia nei siparietti comici con Bromia (una brillante Demi Licata), serva ma anche guida di Alcmena, interpretata da una convincente Irene Grasso.
Un gruppo affiatato, dote necessaria in un’opera in cui il ritmo è la cifra stilistica. Un’amalgama di parole, musica, luci, in un gioco di pieni e vuoti, di realtà e finzione che seducono il pubblico e lo coinvolgono, rendendolo parte del beffardo gioco degli dei.
Il mito è salvo, il senso dell’opera plautina intatto, la lettura della Ludovico accattivante e seducente.

Imma Covino
Foto dalle pagine web del Teatro

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