Tutto il peso del male di vivere in una notte: Antonio Latella affronta “Chi ha paura di Virginia Woolf?”, il capolavoro assoluto di Edward Albee, forte di un cast d’eccezione con Sonia Bergamasco e Vinicio Marchioni

Ti voglio bene mi sono affezionato, ma a volte mi sento un po’ giù. No, no, non faccio scene, ho sempre sopportato, ma da tempo non parliamo quasi più. E poi … e poi … e poi … Quando ci sono i figli … no, non possiamo … e i nostri genitori? Beh quello sarebbe il meno … certo che è dura eh? Gli amici, la gente, il lavoro, si, anche il lavoro … non possiamo lasciarci! E allora? Continuare così, per i figli, per tutti, la risata davanti agli altri, tutto tranquillo, regolare, il tradimento piccolo borghese, la falsità, la commedia, la meschinità, e poi … e poi … e poi …” (Giorgio Gaber)

Strano è il teatro, come, del resto, la vita. Accade di entrare in una accogliente sala e ci si ritrova in un salotto che, pur essendoci assolutamente familiare, assomiglia in tutto e per tutto ad un girone dantesco sortito dai nostri peggiori incubi. È la casa di George e Martha, maturi coniugi residenti nella cittadina di New Carthage, fotografati nella notte di un sabato qualunque, di ritorno da un festa organizzata dal rettore – e padre di Martha – della locale università, allo scopo di favorire la socializzazione tra gli insegnanti. Il bicchiere della staffa e poi a letto, propone George? Non questo sabato. Non questa notte. Infatti, il padre di Martha, deus ex machina non solo delle mura universitarie ma – pare di comprendere – anche delle esistenze che vi si affollano, ha decretato che i due ricevessero immediatamente un’altra coppia, Nick, aitante ed arrogante insegnante di biologia, fresco di nomina cattedratica, e la sua giovane moglie Honey, per un incontro che si preannuncia pregno di sudore e superalcolici. È la scintilla che accende la miccia di un – probabilmente da lungo tempo atteso – gioco al massacro senza vincitori né vinti ma solo con esanimi vittime, di un duello all’ultimo sangue che pare non avere mai fine, di una carneficina totale che ha inizio tra i padroni di casa ma, presto, coinvolgerà anche gli ospiti. All’ostico benvenuto di George risponde la irregolare – ed impura – ospitalità di Martha, la quale non trova di meglio che rinfacciare al marito di essere un fallito, un pusillanime che non è riuscito, nonostante la acclarata posizione privilegiata determinata dalla acquisita parentela, a farsi largo all’interno dell’università, accontentandosi di restare un modestissimo mediocre professore di storia. George, che parrebbe colpito a morte dalle affermazioni della moglie, si rialza e trova la forza di attuare la sua catarsi: se verità deve essere, verità sia, e non solo per lui o per Martha, bensì per tutti i costretti in questo virtuale carcere; così toglierà il velo della menzogna su cui si fondano i due rapporti coniugali ma anche le interrelazioni createsi nella notte, sino a giungere ad “uccidere” il figlio che Martha, con buona pace dello stesso George, si era inventato, uno spettro che – probabilmente – risultava essere l’unico collante della coppia, che, invece, proprio a seguito di questa offerta sacrificale del novello Isacco sull’altare della realtà, come la fenice sembra rinascere dalle proprie ceneri ed accogliere la luce dell’alba come il dono di un nuovo cominciamento.

Chi ha paura di Virginia Woolf?” era, è e rimarrà per sempre il capolavoro assoluto del teatro contemporaneo partorito dalla penna del drammaturgo statunitense Edward Albee, un’opera di indicibile bellezza, che scandaglia il fondo più nero della vita non della vita di una coppia, ma di ogni vita di ogni coppia, un lavoro di ricerca da cui nessuno può dirsi immune e che fa, lentamente ma inesorabilmente, riaffiorare le carcasse che credevamo ormai celate non solo agli altri ma anche a noi stessi, costruita su di una scrittura di irraggiungibile genialità, a partire da quel titolo in cui la grande scrittrice britannica (affetta da depressione cronica e morta suicida e, pertanto, icona del malessere esistenziale che affligge sicuramente Martha e George, ma, forse, anche Honey) è citata per lo storpiamento delle parole della canzoncina per bambini “Who’s afraid of the big bad wolf?” (da noi sarebbe “Siam tre piccoli porcellin”) che la protagonista, ormai ubriaca, intona quasi meccanicamente. La seduta psicanalitica di Albee non produrrà i propri effetti solo sulla matura coppia formata da Martha e George, lapalissianamente individuabili come i canonici assassini di quello che un tempo – lo supponiamo – doveva potersi chiamare “amore”, ma anche sui giovanissimi Honey e Nick, che nella loro laccata felicità costruita sulla finzione del perbenismo, appaiono infine ancor più colpevoli della distruzione dei propri sentimenti, meschini (soprattutto Nick) sino al punto da non riuscire a rinunciare nemmeno per un attimo a se stessi in virtù della effettiva consacrazione di un rapporto affettivo; sarà per questo che Albee pare, da ultimo, condannare la giovane coppia di ospiti alla perenne inedia d’amore, a quel limbo dei sentimenti umani in cui si ritrova chi ha giurato e spergiurato esclusivamente per il proprio personale tornaconto, e, al contrario, concedere una prova d’appello, una ulteriore possibilità solo ai due padroni di casa, i quali hanno sì vissuto nella finzione, ma al solo scopo di essere reciprocamente d’aiuto al proprio congiunto.

Strano è il teatro, dicevamo. Sembra provarci gusto a disorientare, sviare, depistare, confutare le nostre tesi, le nostre supposizioni, persino le nostre piccole certezze. Ad esempio, se qualcuno, come il sottoscritto, un bel po’ di anni fa ha avuto la fortuna di essere stato spettatore della versione dell’opera firmata da Gabriele Lavia e dallo stesso interpretata con la Divina Mariangela Melato nei panni della protagonista, va da sé che si accosterà ad ogni nuova messa in scena con timorosa titubanza, soprattutto per quanto attiene la resa degli attori impegnati nella impervia impresa. Confesso che il pensiero mi avesse inconsapevolmente catturato anche alla vigilia della visione della produzione del Teatro Stabile dell’Umbria che gode della regia dell’ottimo Antonio Latella, inserita nel cartellone della Stagione di Prosa “Altri mondidel Comune di Bari e del Teatro Pubblico Pugliese; invece, complici la nuova traduzione di Monica Capuani e la drammaturgia di Linda Dalisi, i costumi di Graziella Pepe, il progetto luci di Simone De Angelis e la scarna ma funzionale scenografia di Annelisa Zaccheria, con quei pesanti ed opprimenti tendaggi a circoscrivere il palco ed un ingombrante pianoforte verticale al centro dell’ipotetico salotto, l’operazione, nonostante i centottanta minuti di un teatro di parola senza respiro, ha mandato in visibilio il pubblico del Teatro Piccinni di Bari, lasciandosi apprezzare anche per la capacità dello stesso Latella di mettere in primissimo piano il monumentale testo ed operare solo delle minimali incursioni registiche ad invadere la notte e le esistenze dei personaggi (la cassa acustica che si accende ad ogni tocco; l’enorme simbolica testa di coniglio indossata da Honey, che riportava alla memoria, tra l’altro, il capolavoro cinematografico di Richard Kelly “Donnie Darko”; l’anta dell’armadio, in cui sono riposti l’alcool, i tanti bicchieri ed un mini acquario, in tutto identica alla porta, così da creare due apparenti ed ingannevoli vie di fuga; la collezione, ben sistemata per terra, di gatti di porcellana che assistono – inconsci, intoccabili ed inalterabili – alla distruzione totale), consapevole di poter – e, forse, dover – fare un passo indietro alla luce dell’altissima levatura dei protagonisti che – inutile nasconderlo – sono il vero punto di forza di questa edizione.

Le discese ardite nel dramma e le risalite verso una – talvolta – ilare, ma pur sempre amara, ironia si susseguono in modo frenetico, con continui ribaltamenti e colpi di scena; ogni passo, ogni movimento, ogni parola, ogni silenzio finanche, hanno una straordinaria importanza e fotografano in modo praticamente perfetto la vicenda narrata, grazie alla magistrale prova d’attore resa da Sonia Bergamasco, una indimenticabile Martha, giustamente insignita del Premio Ubu 2022 come miglior attrice/performer, Vinicio Marchioni, un George monumentale, da antologia e dalle fattezze – a mio modesto parere, volutamente – pasoliniane, di fatto la spina dorsale dello spettacolo, Paola Giannini, una Honey più che convincente che, spesso, riesce a rubare le luci della ribalta ai suoi colleghi, e Ludovico Fededegni, un Nick bravissimo nel riuscire a farsi immediatamente ed irrimediabilmente odiare, tutti tesi a proporre una interpretazione inquietante, se non addirittura angosciante, quanto intensa e sublime, tanto da attanagliare alla sedia e togliere il fiato ad ogni singolo spettatore, restituendo compiutamente ad ognuno di noi il dolore dei protagonisti, che si fa finanche insopportabile quando – finalmente – comprendiamo che quelle vite che si agitano sul palco potrebbero essere le nostre. O, forse, già lo sono.

Pasquale Attolico
Foto di Brunella Giolivo
dal sito del Teatro Stabile dell’Umbria

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.