L’Orchestra del Teatro Petruzzelli diretta dal Maestro Stefano Montanari realizza una intensa esecuzione della Sinfonia n.9 in Re maggiore, il capolavoro con cui Gustav Mahler disse addio alla vita consegnandosi all’immortalità

Ho suonato di nuovo la Nona di Mahler. Il primo movimento è la cosa più splendida che Mahler abbia scritto. È l’espressione di un amore inaudito per questa terra, del desiderio di vivere in pace con la natura e di poterla godere fino in fondo, in tutta la sua profondità, prima che giunga la morte. Perché essa arriva senza scampo. L’intero movimento è permeato dal presentimento della morte. Si presenta in continuazione. Ogni sogno terreno culmina in questo (da qui la sempre nuova agitazione che cresce impetuosa dopo i passi più delicati), al massimo grado naturalmente in quel passo incredibile in cui il presentimento della morte diviene certezza, in cui la morte stessa si annuncia “con forza inaudita” proprio nel mezzo della più profonda e più dolorosa gioia di vivere. E poi il lugubre assolo di violino e viola e quei suoni soldateschi: la morte in corazza! Contro tutto ciò non c’è più resistenza! Ciò che ancora sopraggiunge mi sembra come rassegnazione. Sempre con il pensiero all’aldilà, che si manifesta proprio in quel passo “misterioso” simile all’aria rarefatta – ancor più in alto delle montagne – sì, come nello spazio che si fa più rarefatto. E di nuovo, per l’ultima volta, Mahler si rivolge verso la terra, non più alle lotte e alle azioni, di cui si sbarazza, bensì soltanto ormai completamente alla natura. Come e quanto a lungo vuole godere ancora delle bellezze della terra! Lontano da ogni fastidio, egli vuole mettere casa nell’aria libera e pura dello Semmerin, per respirare a pieni polmoni questa aria, la più pura di questa terra, con respiri sempre più profondi, perché questo cuore, il più splendido che mai abbia pulsato tra gli uomini, possa espandersi sempre di più, prima di dover cessare di battere.” (Alban Berg)

Leonard Bernstein, che pure ne pareva ossessionato, al punto da elaborarne una ‘sua partitura personale’, zeppa di annotazioni su dinamica, tempo, espressione, che fu certamente utilizzata per le registrazioni con la New York Philharmonic Orchestra, con la Royal Concertgebouw Orchestra, con i Wiener Philharmoniker e, soprattutto, per quella memorabile del 1979 con i Berliner Philharmoniker, l’ha descritta, con riferimento ai suoi quattro movimenti, come i quattro modi di dire addio alla vita. E concretamente Gustav Mahler, componendo la sua Sinfonia n.9 in re maggiore sapeva di essere vicino alla fine, poiché i referti medici dicevano chiaramente che il suo cuore non avrebbe continuato a battere a lungo; infatti, scritta fra il 1909 e il 1910 nella località nei pressi di Dobbiaco che aveva eletto a suo ‘eremo’ (un luogo da favola nel Tirolo meridionale che vi invito a visitare almeno una volta nella vita), la Sinfonia venne eseguita per la prima volta solo nel 1912, un anno dopo la morte del grande compositore boemo, sotto la direzione del suo fidato amico e allievo Bruno Walter.

Tutte le Sinfonie di Mahler racchiudono un nucleo poetico, che stabilisce nella forma e nello stile musicale un determinato contenuto spirituale, quasi fossero nove (escludendo l’incompiuta) romanzi ognuno dei quali contiene un mondo spirituale perfettamente compiuto, ma è solo qui nella Nona che il Maestro arriva a descrivere il senso del commiato, pur larvatamente presente in tutta la sua musica, nella sua espressione più densa, riuscendo come mai prima di allora – e forse come nessuno mai dopo di lui – a prefigurare la morte dell’uomo inteso in tutta la sua universalità. La descrizione così personale, privata, individuale, introspettiva di quello stato di profonda, esistenziale, consapevole lacerazione fu – ed è – talmente perfetta ed essenziale da divenire assoluta, omnicomprensiva, globale, sino ad essere indicata, unitamente alla precedente Sinfonia n.8, come opera ‘cosmopolita’, una confessione – nell’accezione concessa alla parola che lo associa a spiriti illuminati quali Sant’Agostino o Rousseau – in musica, una introspettiva quanto dolorosa seduta psicoanalitica in cui la visione dell’autore, pur riconoscendosi nel racconto della propria storia, riesce a proiettarsi in una elaborazione originale, a superarsi, a guardarsi ed inquadrarsi di spalle mentre sta svanendo nel nulla; quando si giunge alle ultime battute di quell’Adagio finale in cui la composizione sembra tuffarsi in un limpido fiume che scorre lentamente, quasi immoto, finalmente abbandonandosi, senza sentimentalismo, ad un momento di vera dolcezza, ad una melodia celestiale, ultraterrena, è come se Mahler abbia già detto addio al mondo e stia ormai guardando al di là della vita, consegnandosi all’immortalità attraverso le sue opere.

Con l’esecuzione che ha regalato al suo pubblico nell’ambito della Stagione Concertistica 2023 della Fondazione Petruzzelli, l’Orchestra del Teatro diretta dal Maestro Stefano Montanari – con cui pure aveva affrontato nei giorni scorsi la gravosa messa in scena de “Il Barbiere di Siviglia” con la regia di Davide Livermore, di cui si è già detto su queste pagine (https://www.ciranopost.com/2023/01/25/rossini-e-la-partitura-dimenticata-affascina-ma-convince-a-meta-il-barbiere-di-siviglia-con-la-regia-di-davide-livermore-che-ha-inaugurato-la-stagione-dopera-2023-della-fondazione-del-teatro-pe/), impegno che, di certo, non avrà permesso numerose sedute di prova della Sinfonia – è riuscita a dipingere questo grande quadro impressionistico con pennellate decise, mettendo in luce tutta la bellezza delle irregolarità ritmiche, del rincorrersi dall’inizio alla fine delle note, così da rappresentare gli aspetti più tragici di questo straziante addio alla vita, ma anche quelli di raggiunta ‘lieta serenità’ nell’affrontarlo nonchè di profondo attaccamento alla vita stessa. L’interpretazione di Montanari, pur nella sua suntuosità, è stata intensa e distaccata al tempo stesso, scevra da complici ammiccamenti sentimentali con l’ascoltatore, all’incessante ricerca – come richiesto dalla partitura – di un timbro diverso e specifico per ogni strumento, conservando però un’unità di fondo data da un suono che giungeva sino alla folta platea del Politeama barese quasi disincarnato, prosciugato. Un risultato di tale qualità complessiva si può raggiungere solo se si ha modo di dirigere un’ottima orchestra, qualità che, ancora una volta, l’ensemble del Petruzzelli estrinsecava in tutta la sua compagine, con una menzione particolare, nell’occasione, per la sezione dei fiati, la cui performance raggiungeva vette di perfezione.

Pasquale Attolico

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