Rossini e la partitura dimenticata: affascina ma convince a metà “Il barbiere di Siviglia” con la regia di Davide Livermore che ha inaugurato la Stagione d’Opera 2023 della Fondazione del Teatro Petruzzelli

Rossini, con la forza del suo genio, abbatte d’un colpo le formule e le convenzioni del suo tempo e obbliga i cantanti a dare un significato al canto, pure conservando la poesia degli arabeschi vocali. Ma questi arabeschi Rossini li scrive in modo che il tema melodico, qualora spogliato di quegli ornamenti, perderebbe gran parte del suo vigore e della sua efficacia. La grande riforma rossiniana sta appunto in quel mirabile connubio del canto fiorito con la espressione drammatica della poesia: connubio non mai tentato prima di lui, né più ottenuto dai suoi imitatori.” (Gino Monaldi)

Mangiare e amare, cantare e digerire: questi sono in verità i quattro atti di questa opera buffa che si chiama vita e che svanisce come la schiuma d’una bottiglia di champagne. Chi la lascia fuggire senza averne goduto è un pazzo!”(Gioachino Rossini)

Inaugurare l’annuale Stagione d’Opera con una delle sempre geniali creazioni registiche di Davide Livermore non è operazione da tutti. Se, poi, la scelta cade su uno dei titoli più rappresentati della storia della musica, vale a dire “Il barbiere di Siviglia” del Maestro Gioachino Rossini, non vi è voce che possa levarsi se non per plaudire alla proposta della Fondazione del Teatro Petruzzelli e, contestualmente, libare al successo che le è stato tributato, decretato dal preventivo sold out per tutte le repliche in programma (per la cronaca, mercoledì 25 gennaio alle ore 18.00, venerdì 27 gennaio alle 20.30, sabato 28 gennaio e domenica 29 gennaio alle 18.00). Eppure, al termine della Prima, non è possibile nascondere un certo disagio e non dirsi interdetti.

Del resto, a pensarci bene, “Il barbiere” ha costantemente tenuto fede ad una sua particolarissima caratteristica, quasi una missione: quella di trovarsi sempre e comunque nelle condizioni di innegabile spartiacque; è stato così sin da quel lontano 20 febbraio 1816 quando, levatosi il sipario del Teatro Argentina di Roma sul capolavoro che Rossini, complice il libretto di Cesare Sterbini, aveva magistralmente tratto da una commedia di Beaumarchais, si registrò l’iniziale – e, per fortuna, mai più verificatasi – insoddisfazione del pubblico – tra cui certamente vi erano molti seguaci di Paisiello che, poco prima, aveva realizzato una sua versione dell’opera – che decretò l’incomprensibile fiasco della prima rappresentazione, non comprendendo nell’immediato che l’Opera del genio pesarese costituiva l’esempio più fulgido dell’Opera buffa e della ormai chiara rottura con gli schemi del passato, in particolare con l’epoca barocca. In effetti, con Rossini le differenze saltavano immediatamente all’occhio ed, ancor più, all’orecchio: laddove in passato i personaggi si stagliavano per i loro ideali, rappresentando i valori più alti dell’essere umano, ora erano chiamati ad affrontare le piccole lotte con l’umano e quotidiano vivere, con una visione che partiva dal basso, dal popolo, alla stregua dei profondi cambiamenti culturali e sociali in atto nella società di fine Settecento; laddove le voci degli interpreti brillavano di luce accecante, spesso soffermandosi su orpelli virtuosistici, il Maestro richiedeva – se non imponeva – maggiore presenza scenica, in una concezione della rappresentazione che si faceva totale.

In tale ottica, posso affermare, senza tema di smentita, di non aver mai assistito ad una versione del “Barbiere” che fosse più perfettamente in linea con gli intenti ‘spettacolari’ rossiniani di quella che vede Livermore regista e scenografo, commissionata dal Teatro dell’Opera di Roma nel 2016 per il 200° anniversario dell’indiscusso capolavoro ed oggi ‘rispolverata’ dalla Fondazione Petruzzelli con la regia e le scene riprese rispettivamente da Alessandra Premoli Anna Varaldo, i magnifici costumi di Gianluca Falaschi (ripresi da Gian Maria Sposito), il disegno luci di Vincenzo Raponi, le illustrazioni di Francesco Calcagnini, i video di D-Wok e gli effetti magici di Alexander; anzi, il regista torinese si candida ad essere il miglior erede dello spirito rivoluzionario – se non eversivo – dell’opera, sin dal cinematografico geniale prologo – qualcosa a metà tra la comicità pungente quanto surreale dei Monty Python e i cartoni animati che descrissero le scorribande sul Sottomarino Giallo dei Beatles, entrambi adorati da chi scrive – che fa scorrere sul grande schermo, durante l’esecuzione della magnifica Ouverture iniziale, i ritratti, tra gli altri, di Luigi XVI, Robespierre, il generale Franco, Stalin, Saddam Hussein, Hitler e Mussolini (quest’ultimo iconicamente a testa in giù), tutti dittatori, dominatori, assassini, pazzi assetati di sangue e di potere, tutti trionfanti, sino a quando un topo, presente anche fisicamente sul palco in elettronica riproduzione, non inneggerà alla rivoluzione dando inizio al rito della ghigliottina, il più sovversivo per antonomasia, cui sottoporrà tutti i tiranni, naturalmente dopo averli ingannati e tranquillizzati con la preparazione alla rasatura che si confà ad un provetto barbiere, sino a giungere alla decapitazione dell’incolpevole Beaumarchais, da cui, come fosse l’Idra, risorgerà Rossini.

Da quel momento in poi, la messa in scena non conosce un attimo di pausa, grazie anche all’apporto di un fantastico gruppo di mimi / attori / ballerini, spesso impegnati a doppiare e triplicare i protagonisti, i cui corpi, in tal modo, parevano allungarsi, protendendosi da una parte all’altra delle porte, o a danzare strepitosamente con le teste mozzate o celati nella pelle di un orso buontempone. Salvo qualche raro momento di commovente emozione, uno per tutti quello in cui, allorquando Figaro descrive la sua dimora, appare sullo schermo il dipinto della cupola del nostro Politeama, illuminato per l’occasione, tutta la rappresentazione è incalzante, frenetica, stupefacente, un florilegio di brillanti trovate e di infinite citazioni, che vanno dal richiamo al mondo di celluloide di Tim Burton, soprattutto “Alice in wonderland”, ma anche lo spiritello porcello di “Beetlejuice”, a Don Bartolo, che sembra “Il dottor Stranamore” di kubrickiana memoria, da Don Basilio, che replica l’ispettore Kemp di “Frankenstein Junior” di Mel Brooks, al Conte di Almaviva, che, sotto le mentite spoglie di don Alonso, omaggia il Totò menagramo dell’episodio di “Questa è la vita” di Luigi Zampa ispirato alla novella “La patente” di Pirandello, sino a diventare, nel convulso finale, il rapper (o il cantante neomelodico) dello show televisivo di turno, e mille e mille altre, giù giù sino ad un mondo popolato da gente (sempre bardata con maschere che richiamano tanto “Eyes wide shut”, sempre di Kubrick, quanto “Il fantasma dell’Opera” di Lloyd Webber) ipnotizzata dal telefonino e dal tubo catodico, naturalmente pagato in comode quanto infinite rate, nuovi mezzi di coercizione di quel mai sopito desiderio dittatoriale (Orwell docet) che solo il diabolico rivoluzionario topo, emblema simbolo dei poteri dell’oscurità, del movimento e dell’agitazione incessante, potrà infine distruggere con il suo ultimo e definitivo gesto anarchico.

Detto questo, non vi è chi non veda che, per compiacersi totalmente dell’arte di Livermore, occorreva assecondare il dettame rossiniano riportato in apertura di articolo, attingendo alla verve geniale del regista come fosse una bottiglia di champagne, godendone appieno senza lasciarsi sfuggire l’opportunità di, finanche, ubriacarsene; e così ho fatto, nel tentativo di non essere chiamato pazzo, divertendomi – lo ammetto senza reticenze – come credo non mi fosse mai accaduto in qualità di spettatore di un’opera lirica. Ma, come detto, alla fine non è possibile non chiedersi cosa si è disposti a perdere del capolavoro rossiniano esclusivamente per dare sfogo al proprio piacere personale, essendo innegabile che una tale affascinante visione abbia depauperato la partitura musicale che, al contrario, non andrebbe mai messa in secondo piano o, addirittura, dimenticata; invece – duole dirlo – è esattamente questo quello che è accaduto nella inaugurazione barese, con l’Orchestra ed il Coro del Teatro Petruzzelli che sembravano far quel che potevano per stare dietro alla rappresentazione, risultando molto spesso in evidente affanno (da dimenticare ad esempio, in tal senso, il finale del primo atto), purtroppo non ben supportati nell’improba prova dalla pur vigorosa bacchetta di Stefano Montanari che, talvolta, risultava preda inconsapevole delle scelte registiche.

Anche il cast, seppur visibilmente divertito e innegabilmente divertente, non riusciva a spiegare le ali del bel canto di cui pure era dotato, ancorato a terra da una maniacale attenzione attoriale; ma se – tanto per dirne alcune tra le tante – l’ottimo Figaro di Marcus Werba era costretto a battere di continuo i tacchi per terra, muovendosi e ballando come un forsennato, il più che buono Conte di Almaviva di Levy Sekgapane non aveva il tempo di manifestare il suo pathos ed il convincente Don Basilio di Adolfo Corrado era perennemente funestato dal posticcio rumore del braccio meccanico di cui era dotato, allora non vi può più essere alcun dubbio che qualcosa non sia funzionato nella commistione tra recitazione e note, un evidente inciampo cui riuscivano a sottrarsi solo la Rosina di Laura Verrecchia, per lo più sublime, ed il Don Bartolo di Marco Filippo Romano, che, al contrario, sembrava fare di necessità virtù, cavalcando l’onda impazzita e riuscendo a coniugare una vis comica, e non solo, di primissima qualità, con una voce che non disdegnava di andare in falsetto per dileggiare gli altri protagonisti, tra cui pure occorre menzionare la efficace Berta di Ani Yorentz ed il Fiorello di Janusz Nosek, entrambi funestati dall’utilizzo di improbabili maschere.

Pertanto, lungi da me la volontà di iscrivermi tardivamente alla corte dei puristi, in fin dei conti credo di poter asserire, parafrasando il titolo originale dell’opera di Rossini, che qualche “utile precauzione” in più, facendo soprattutto attenzione a mettere teatro e musica in perfetto connubio, ci avrebbe consegnato un capolavoro di portata epica, da ricordare negli annali non solo del nostro Teatro ma anche dell’intera produzione lirica nazionale e mondiale, cosa che, salvo qualche ardua metamorfosi in corsa, potrà difficilmente verificarsi per questo tagliente “Barbiere”.

Pasquale Attolico
Foto di Clarissa Lapolla photography

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2 commenti su “Rossini e la partitura dimenticata: affascina ma convince a metà “Il barbiere di Siviglia” con la regia di Davide Livermore che ha inaugurato la Stagione d’Opera 2023 della Fondazione del Teatro Petruzzelli

  1. franca angelillo Rispondi

    recensione ampia, condotta con competenza e frequenti, utilissimi approfondimenti culturali.

  2. Emilio Rispondi

    Non ho avuto visione del barbiere al petruzzelli,bensi’ di quello all’opera di roma,praticamente di identica regia.Mi rincresce sinceramente che
    Livermore non abbia visto il grottesco in cui cadeva quando ideava la sua messinscena per un eccesso di ….tutto un po’.La rivoluzione alle porte…le autocrazie ottonovecentesche…le dittature novecentesche!!!Che c’entrava tutto cio’??Rossini voleva che il suo barbiere
    fosse gioia,sentimento, innamoramento,delusione,in clima di squisita sottile ironia e autoironia dei suoi personaggi, dal grande di Spagna
    Almaviva alla popolana Berta…Chi non ravvisa nel barbiere un ripasso della propria personale, adolescenziale vicissitudine amorosa..Una specie insomma di Educazione Sentimentale
    in musica. Caro Rossini come Caro Flaubert vien voglia di dire,sulle note
    musicali l’uno sulla pagina letteraria l’altro!!!Insomma Livermore per un
    suo piu’ prudente sforzo a venire
    dia un’occhiata al Barbiere di Luca Salsi e compagni, dato al regio di Parma che non e’ molto.Con stima!

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