L’uomo, con le sue domande ed il suo tormentato andare: convince al Teatro Abeliano di Bari l’adattamento di Marinella Anaclerio per la Compagnia del Sole de “Il Grande Inquisitore” di Fëdor Dostoevskij

Cosa rende attuale la lettura di Fëdor Dostoevskij a più di duecento anni dalla sua nascita?
Senza dubbio la ricchezza dei temi trattati, per cui ognuno di noi può ritrovare nelle sue pagine qualcosa di sé e del suo vissuto, ma soprattutto lo sguardo attento e profondo sulle domande di senso, su quegli interrogativi che da sempre l’uomo si pone. Dostoevskij parla della nostra umanità, del tormento che sottende la ricerca della verità, degli slanci, dei dubbi, dell’altezza e della miseria dell’animo umano. E lo fa con scrittura potente, con personaggi che incarnano le luci e le ombre, i palpiti e i vuoti dell’esistenza. Per questo, se si riesce a superare quell’ingiustificato timore che talvolta coglie chi si accosta alla letteratura russa, si entra in un turbinio di passione, di senso vivo, di sentimenti connaturati all’essenza stessa dell’uomo. Ci si ritrova allora in quelle pagine, nei cuori di quegli uomini che alla fine non sono molto diversi dai nostri cuori.

Questo accade ne Il Grande Inquisitore, celebre apologo contenuto nel romanzo I fratelli Karamazov, che da esso si stacca per diventare racconto a sé stante, andato in scena al Teatro Abeliano di Bari nell’adattamento e con la regia di Marinella Anaclerio, fondatrice e anima della Compagnia del Sole.
Sul palco, “svestito” in modo essenziale da Francesco Arrivo, un groviglio di fili dorati, con fogli, appunti e lamine, richiamano la complessità della mente umana e si intrecciano su due pannelli che sono ad un tempo porta e parete. E poi un tavolo e due sedie, una bottiglia e un solo bicchiere.
È una stanza appartata di una trattoria russa il luogo in cui si sono dati appuntamento Aleksej, il minore dei fratelli Karamazov, aspirante monaco, e Ivan, suo fratello maggiore, uomo razionale e intellettuale tormentato, diviso tra la volontà di credere in Dio e l’incapacità di accettarne l’implicita crudeltà. Nell’aria il dramma della loro vicenda familiare, ma soprattutto l’urgenza quasi disperata di conoscersi e riconoscersi, in un incontro che potrebbe essere l’ultimo prima che le loro strade si dividano per sempre. Ciascuno vorrebbe salvare l’altro; entrambi cercano di esporre la loro visione della vita. È Aleksej che apre e chiude la pièce, ma è il racconto che Ivan fa a suo fratello l’essenza ultima dell’apologo, disegnando col suo personaggio uno dei ritratti più angoscianti e belli dell’incerto andare dell’uomo e del peso esistenziale che porta con sé.

Non c’è nulla di più ammaliante per l’uomo che la libertà della propria coscienza: ma non c’è nulla, del pari, di più tormentoso.

Nel racconto di Ivan, in una Spagna seicentesca dominata dalla Santa Inquisizione, il Grande Inquisitore scorge il Cristo tra la folla radunata a Siviglia per un grande autodafé. Tornato sulla terra, non parla, non dice nulla, ma passa compiendo miracoli: la gente lo riconosce e mormora il suo nome. L’inquisitore lo fa arrestare e lo condanna nuovamente a morte. Di notte poi si reca nella sua cella e in quello che non sarà un dialogo (Cristo infatti non pronuncerà parola) ma un vero e proprio j’accuse, gli espone la propria visione del mondo, della libertà e del libero arbitrio; gli dice che lo condannerà nuovamente a morte perché non nuoccia a quel modello di cattolicesimo che la Chiesa è riuscita finalmente ad imporre e che egli non permetterà che venga messo in discussione.

Abbiamo corretto la tua opera, fondandola sul miracolo, sul mistero e sull’autorità. E gli uomini si sono rallegrati di essere guidati di nuovo come un gregge, di vedere di nuovo il loro cuore finalmente liberato da un dono tanto terribile che aveva arrecato loro tanti tormenti.”

Il cattolicesimo ha fatto questo, secondo il Grande Inquisitore: ha corretto gli insegnamenti di Cristo, per assicurarsi il potere, per conquistare la coscienza del genere umano e per governarlo. Ha liberato l’uomo da ogni preoccupazione, da ogni tormento legato ad una scelta, togliendogli quella libertà che il Cristo aveva predicato e dandogli in cambio un’illusione di pace e serenità. Il Grande Inquisitore si sente quindi un benefattore, un nuovo Pilato che però non si sottrae alle proprie responsabilità e anzi è granitico e pragmatico nelle sue scelte, decide ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, guida, governa, prende su di sé il fardello che nel cammino verso la libertà peserebbe sulle spalle degli uomini.
Il Cristo resta in silenzio, non risponde, non pronuncia parola, non usa argomenti per dire le sue ragioni, ma inaspettatamente si alza e bacia il vecchio sulle labbra. Colui che ha predicato l’amore e la libertà non come concetto ma come azione quotidiana, con il suo gesto è la risposta vivente e silenziosa al Grande Inquisitore.

Quel bacio gli brucia nel cuore, ma il vecchio non muta la sua idea.

Ed è con un bacio altrettanto appassionato e quasi disperato che Aleksej sigilla il legame con suo fratello, nel muto tentativo di salvarlo dai demoni che stanno invadendo il suo cuore.

Sul palco dell’Abeliano Tony Marzolla e Flavio Albanese (rispettivamente Aleksej e Ivan) riescono con successo a tenere avvinto il pubblico in questo tortuoso viaggio nelle pieghe dell’anima. Più contenuta e dimessa la cifra recitativa di Marzolla, anche coerentemente alla psicologia del personaggio, mentre il ritmo e la passione sono dati senza dubbio dalla vis di Albanese che occupa ogni angolo del palcoscenico e dell’attenzione del pubblico, e si rivela protagonista (oseremmo dire mattatore) instancabile e travolgente. Il personaggio di Ivan sembra abitarlo dall’interno, e questo rende naturale ogni suo gesto, ogni sua parola. Nulla di artificioso, di troppo carico, di eccessivo, ma nello stesso tempo forza, potenza, capacità di trascinare e coinvolgere.

Uno spettacolo molto bello, davvero, con una regia quasi minimalista ma assolutamente precisa. Uno sguardo puntuale anche nelle scelte delle luci e della musica che accompagnano e sottolineano con delicatezza l’azione scenica. Tutto contribuisce a farci godere di un testo che ancora una volta, come si diceva all’inizio, si rivela essere estremamente attuale e “riconoscibile” dall’uomo contemporaneo, che porta in sé le stesse domande e lo stesso tormentato andare.

Imma Covino
Foto di Giacinto Mongelli
dal sito online della Compagnia

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1 commento su “L’uomo, con le sue domande ed il suo tormentato andare: convince al Teatro Abeliano di Bari l’adattamento di Marinella Anaclerio per la Compagnia del Sole de “Il Grande Inquisitore” di Fëdor Dostoevskij

  1. Maria anaclerio Rispondi

    Grazie infinite per la profonda ed esaustiva analisi nonche’ per il lusinghiero giudizio sul nostro lavoro. Dostoevskij e’ per me un caposaldo del pensiero umano, portare in scena i personaggi da lui creati per trasmettere le su rifleessioni sull’esistenza umana e’ quasi necessità. Grazie per averlo rilevato con tanta chiarezza.

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