Nello splendido “Le otto montagne” di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch sono le vette a rubare il ruolo di protagonisti agli ottimi Luca Marinelli ed Alessandro Borghi

Quando vado a vedere un film come “Le otto montagne“, al di là della fotografia e degli spazi immaginati e reali, mi chiedo sempre perché non mi ha annoiato. Non ho visto sparatorie, inseguimenti, una qualunque forma di azione frenetica o più semplicemente rapida che alzi l’attenzione dello spettatore per i rumori e le immagini convulse. Eppure, non sono riuscito a staccare gli occhi dallo schermo. Mi viene in mente che l’attenzione è attratta non dallo spazio esteriore rappresentato, ma dalla capacità di utilizzare il panorama per coinvolgere lo spettatore in un gioco, come specchio del bisogno di capire se stessi.

E’ questa la necessità di Pietro, alter ego dell’autore del libro Paolo Cognetti e anche voce narrante. Prima ragazzino curioso, poi adolescente ribelle e scontroso e, infine, adulto che riesce a trovare la propria dimensione nella incessante ricerca (da cui il titolo). Il suo amico e completamento, Bruno, è la pietra di paragone delle insicurezze di Pietro.

Pietro, il ragazzo di città, tutto rivolto alla scoperta di nuovi equilibri, perennemente diviso fra il richiamo delle montagne in cui ha vissuto tutte le estati con suo padre ed il suo amico, ed il rigetto, adolescenziale, della figura paterna legata indissolubilmente a quegli stessi luoghi.
Bruno, il ragazzo di montagna, che lì è nato e da quella valle è stato portato via da un genitore distante e non amato. Per questo torna nel suo paese, stabile e lì autoconfinato, riuscendo a sostituire la sua famiglia con la mamma ed il papà di Pietro che, come lui, amavano quei luoghi solitari.
I due diversi si attraggono in un’amicizia profonda che resiste al tempo ed alla distanza. Come le montagne, gli amici si ritrovano sempre lì a testimoniare la inseguita costanza dei sentimenti umani.

Raccontare la trama del film, in questo caso, è come raccontare il nulla, perché in pellicole del genere non è la storia ad essere il fulcro della narrazione. Sono i personaggi e, soprattutto, i sentimenti, silenziosi e tenaci, che ci accompagnano nello sviluppo dell’opera.

I protagonisti sono molto ben incarnati dagli attori – pochi – che si avvicendano sulla scena.
Dalle bravissime Elena Lietti, la mamma di Pietro, ed Elisabella Mazzullo, la moglie di Bruno, che ci regalano, in maniera profonda e ben delineata, due figure femminili apparentemente marginali nella storia, ma in realtà fondamentali per lo sviluppo umano dei protagonisti.
Filippo Timi, in piena e prepotente maturità artistica, disegna un padre affettuoso che, arrabbiato ed esasperato in città, solo nelle montagne riesce a trovare se stesso ed il suo profondo amore per il figlio.

Luca Marinelli, Pietro, e Alessandro Borghi, Bruno, sono in questa vicenda imprescindibili anche come recitazione.
Il primo con una interpretazione inquieta e a tratti sorpresa, quasi sognante. Il secondo con una base, anche linguistica, solida e mai eccessiva. Le espressioni non travalicano il ruolo ma si mantengono nell’alveo della assenza di loquacità propria del nostro immaginario del montanaro. Ambedue gli attori non danno la sensazione di occupare con la loro soggettività il personaggio ma, piuttosto, di essere essi stessi preda delle persone che rappresentano.

Va detto però che l’interprete principale delle scene è la montagna. La scelta dei due registi/sceneggiatori Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch è stata quella di girare, in massima parte, nei luoghi di Cognetti. La Val d’Ayas, ai piedi del Monte Rosa, è lo scenario della maggior parte delle scene e della dichiarazione d’amore dei registi alla montagna. Così la fotografia si sforza di rappresentare un habitat silenzioso e molto poco popolato che figuri un’idea di montagna come luogo in cui ritrovarsi.

La colonna sonora è di Daniel Norgren, ad un tempo basica e profonda, che commuove.

Nei cinema, dopo la sbornia di Avatar, finalmente in programmazione da prima serata: non perdetelo.

Marco Preverin

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