“La Commedia è Poesia da rappresentarsi”: Valter Malosti, accogliendo il dogma di Carlo Goldoni, mette in scena una strabiliante versione de “I due gemelli veneziani”

L’argomento de due simili, sebbene maneggiato da tanti ne’ tempi addietro in tante fogge, mi è paruto atto a produr sempre nuove e non più immaginate Commedie. Quella di Plauto, intitolata i “Menecmi”, è la fonte universale donde tutti gli altri, che vennero poi, cavaron le loro. Una cosa mi è certamente riuscita in questa Commedia, che non so a qual altro Comico Poeta sia mai riuscita. Per ben condurre al suo termine la mia azione, mi è convenuto far morire in iscena uno de’ due Gemelli, e la di lui morte, che difficilmente tollerata sarebbe in una Tragedia, non che in una Commedia, in questa mia non reca all’uditore tristezza alcuna; ma lo diverte per la sciocchezza ridicola, con cui va morendo il povero sventurato. (…) Ma la Commedia è Poesia da rappresentarsi, e non è difetto suo che ella esiga, per riuscir perfettamente, de’ bravi Comici che la rappresentino, animando le parole col buon garbo d’un’azione confacevole; checché ne possan dir i severi Critici, egli è certo che tutti coloro i quali han veduto rappresentar la morte di Zanetto, han confessato esser ella uno de’ pezzi più ridicoli e nuovi della Commedia.” (Carlo Goldoni – Prefazione all’edizione a stampa de “I due gemelli veneziani”)

Un orologio di impagabile precisione, un congegno finito i cui componenti non hanno altra ragion d’essere se non al suo interno stesso: questo è, senza alcun dubbio, la versione che il genio di Valter Malosti ha partorito, curandone l’adattamento assieme ad Angela Demattè, de “I due gemelli veneziani” di Carlo Goldoni, la produzione ERT Teatro Nazionale / TPE – Teatro Piemonte Europa/ Teatro Stabile del Veneto / Teatro Metastasio di Prato giunta in esclusiva regionale al Teatro Piccinni di Bari nell’ambito della Stagione teatrale 2022.23 “Altri mondi” del Comune di Bari realizzata in collaborazione con il Teatro Pubblico Pugliese.

La perfezione della messa in scena è talmente lapalissiana, come del resto sottolineato dalle ovazioni con cui il pubblico della Prima, in larga parte rappresentato – per mia personalissima gioia – da giovanissimi che gremivano il Piccinni in ogni ordine di posto, ha salutato la performance, da potersi affermare senza tema di smentita che se accettiamo come un dogma quel “la Commedia è Poesia da rappresentarsi” in cui c’è tutto il rito del teatro secondo Goldoni, allora non possiamo non affermare che oggi Malosti ne sia il suo rappresentante più ispirato e fedele, il suo epigono e, allo stesso tempo, il suo sacerdote.

Come già aveva fatto nel suo magnifico approccio al mondo pirandelliano con “Il berretto a sonagli”, il regista si fa ermeneuta del testo classico per poi trasportarlo, installarlo, alloggiarlo e compierlo nel corpo dell’attore; partendo da una attenta analisi linguistica e determinandosi audacemente a scegliere di non scegliere un solo linguaggio, bensì a mescolare l’italiano con il veneto e con il napoletano, senza alcun grado di separazione in categorie standardizzate, l’opera realizza una popolare Torre di Babele, un corto circuito esperanto che si installa quasi impercettibilmente nella mente di noi spettatori, sino a quando non sembriamo più nemmeno accorgercene. In apparente contrasto con questa accattivante via interpretativa, Malosti, rinnovando gli intenti della sua insuperabile e definitiva versione di “Se questo è un uomo” di Primo Levi, si concede un’ambientazione oscura, cupa, fosca e – più spesso – offuscata, complice un velo che cala sovente a dividere il palco dal proscenio, il detto dall’immaginato, il visibile dall’invisibile, il vero dal falso, non temendo il confronto con le edizioni del passato – penso soprattutto al teatro di Giorgio Strehler e, forse ancor più, alla mitica versione di Luca Ronconi del 2001 -, bensì servendosene, catturandone taluni spunti – che possono anche essere visti come omaggi – per poi dare la sua particolare visione della vicenda familiare e sociale che Goldoni volle cinica e spietata come non mai, finanche rinunciando al discutibile lieto fine che gli era caro, facendo sì che lo spettatore possa essere trasportato in un turbine di emozioni che, per una volta, non lascia spazio ad indulgenza, perdono, assoluzione.

Concedendosi qualche licenza sul testo, Malosti lascia che, in una Verona più vicina al dramma di Romeo e Giulietta che alla gioiosità goldoniana, si compia la parabola di Zanetto, figlio sciocco di un ricco mercante, cresciuto a Bergamo ma giunto in città per sposare Rosaura, figlia del dottor Balanzoni, e del ben più scaltro fratello gemello Tonino, cresciuto a Venezia e caduto in disgrazia, anch’egli a Verona per recuperare la sua amata Beatrice, affidata, per sfuggire alla corte insistente di un certo Lelio, alle cure dell’amico Florindo, a sua volta segretamente innamoratosi della giovane. La commedia degli equivoci si dipana così, tra i dubbi di Rosaura, sviata dagli ingannevoli consigli del signor Pancrazio, anziano amico di famiglia che, in realtà, la desidera per sé, i capricci e le minacce di Colombina, serva in casa Balanzoni, promessa sposa ad Arlecchino, servo di Zanetto, e, soprattutto, il continuo scambio di persona tra i due gemelli, che crea situazioni per lo più parossistiche, sino al tragico finale dell’omicidio / suicidio di Pancrazio nei confronti dell’ingenuo Zanetto ed alla scoperta della verità che Colombina aveva a lungo minacciato di rivelare: Rosaura è in realtà Flaminia, la sorella illegittima e perduta di Tonino e di quel povero Zanetto che ora sembra rivivere proprio nella sorellastra.

Magnificamente coadiuvato dalle scene e luci di Nicolas Bovey, dai costumi di Gianluca Sbicca e, soprattutto, dall’ottimo progetto sonoro di Gup Alcaro, Malosti realizza un adattamento assolutamente convincente e vincente, che pare voler mettere anche noi davanti ad uno specchio, azione che, del resto, applica nei confronti della sua Compagnia, assegnando, anche in ossequio alle leggi non scritte della Commedia dell’Arte, a gran parte degli attori un doppio ruolo, escludendo da questa scelta i ruoli femminili, forse per evidenziare il rispetto loro dovuto o solo perché in ognuna di loro è già presente una moltitudine di universi sempre in conflitto, ed il personaggio del cattivo per antonomasia, Pancrazio, che non solo è già in sé doppio, bugiardo, falso, ma che probabilmente, essendo la personificazione del male assoluto, non è replicabile.

Superfluo dire che, con questi presupposti, gli interpreti non potessero che essere sorprendentemente straordinari, realizzando un blocco unico di granitica bravura, un meccanismo di assoluta precisione con ogni ingranaggio già di per sé perfetto eppure perfettamente inserito nel contesto, a partire da Marco Foschi, fregolianamente nei ruoli dei fratelli Zanetto e Tonino, che passa camaleonticamente dallo sprovveduto al saggio in un solo batter di ciglia, Marco Manchisi, un Arlecchino soleriano ma senza quella inconfondibile maschera che indosserà, invece, quando si farà cupo Pulcinella, voce della coscienza, tra Eduardo e Leo de Berardinis, e Danilo Nigrelli, un Pancrazio a metà tra il più infido degli Jago shakespeariani e la rappresentazione disneyana e cocciantiana del Frollo creato da Victor Hugo per “Notre-Dame de Paris”. E poi Camilla Nigro (Colombina), Irene Petris (Beatrice) ed Anna Gamba (Rosaura), cui, cancellato il matrimonio con Florindo del testo originale, è affidato il toccante finale che sa di ancestrale memoria, Alessandro Bressanello (Dottor Balanzoni / Tiburzio), Valerio Mazzuccato (Brighella / Bargello), Vittorio Camarota (Florindo / poliziotto) e Andrea Bellacicco (Lelio / facchino / poliziotto), tutti magnificamente protesi a generare un vero miracolo che riconcilia con l’essenza stessa del Teatro e la cui visione andrebbe imposta a quanti credono di potersi impunemente accostare ad una poetica sublime come quella goldoniana.

Pasquale Attolico
Foto dalla galleria della Compagnia

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