“La gente ha bisogno di un mostro in cui credere. Un nemico vero e orribile. Un demone in contrasto col quale definire la propria identità. Altrimenti, siamo soltanto noi contro noi stessi.” (Chuck Palahniuk)
“Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te.” (Friedrich Nietzsche)
Una pratica – da qualche tempo a questa parte – diffusa, se non ormai costante, vuole che siano inseriti nei cartelloni della stagioni teatrali i cosiddetti focus, vale a dire periodi – se possibile continuativi – di giornate in cui mostrare, attraverso spettacoli e cicli di incontri tematici, l’originale percorso, tanto narrativo quanto poetico, di creazione e ricerca, nonché, soprattutto, gran parte – se non tutta – l’attività produttiva di una compagnia e/o di un singolo autore, regista, attore. Quando il Teatro Pubblico Pugliese ha annunciato che la Stagione teatrale 2022.23 “Altri Mondi” del Comune di Bari avrebbe dedicato un focus all’attore e drammaturgo barese Mariano Dammacco, i bulimici consumatori di teatro (tra cui, naturalmente, sono collocabile) hanno fortemente sperato di poter godere, in brevissimo e vertiginoso lasso di tempo, di tutta la produzione della sua Piccola Compagnia Dammacco, che annovera anche Serena Balivo, Stella Monesi ed Erica Galante, salvo poi scoprire che si faceva riferimento a due ‘soli’ lavori teatrali. Tant’è: nulla di irrecuperabile, anzi ritengo che il proporre una tranche ridotta possa aver stimolato il pubblico, soprattutto il più giovane, ad ‘investigare’ alla scoperta della pregressa vita della Piccola Compagnia. Ad ogni modo, non posso non plaudire alla scelta dei due lavori proposti, “Spezzato è il cuore della bellezza” e “Danzando con il mostro”, che, a mio modesto parere, sono legati da un evidentissimo fil rouge che li rende prossimi, affini, contigui, se non, finanche, comunicanti.
“Spezzato è il cuore della bellezza”, premio Ubu 2021 nella categoria “nuovo testo italiano / scrittura drammaturgica”, racconta il classico triangolo amoroso (lui, lei e l’altra), fotografando, illuminando, immortalando esclusivamente le due donne, scandagliandone l’animo sino a realizzarne un’ecografica analisi, atta a recuperarne minuziosamente ogni mutamento determinato dal presente/assente uomo, così da dar voce – e che voce! – al solo universo femminile. Serena Balivo interpreta in modo sublime entrambe le protagoniste, la donna tradita dopo dieci anni di convivenza e la giovane fiamma di apparente virginea ed innocente indole, non solo per aver superato la difficoltà di entrare fregoliamente nei panni dell’una e dell’altra, ma anche e soprattutto per la capacità di sottolineare l’interscambiabilità dei ruoli delle stesse, dato che, a causa delle indecise ed univoche scelte del fedifrago amante, che appare muto e mascherato sul palco in pantomime di Erica Galante, ci sarà un continuo capovolgimento delle funzioni a loro riservate, in un corto circuito emotivo che le fa passare da prescelte ad abbandonate e viceversa in men che non si dica.
“Danzando con il mostro”, proposto al Teatro Piccinni di Bari in prima nazionale, ci accoglie con un incipit a dir poco folle: in una sconosciuta lingua aliena, prontamente tradotta, si ringraziano le mostre ed i mostri presenti in sala e ci si rallegra della scelta operata dai loro umani di riferimento di condurli a teatro per lo spettacolo “Danzando con l’umano”; comprenderemo presto che quelli che si agitano sul palco sono strani personaggi capaci di viaggiare nel tempo, protèsi verso un futuro da cartolina, la cui sola conoscenza possa, consapevolmente o no, mutare un presente scomodo, ingombrante, ostico, pregno di errori, in cui ogni dono, dal più irrilevante al più importante, dal più insignificante al più vitale, che credevamo esserci stato trasmesso per la vita, sembra impietosamente disintegrarsi tra le nostre stesse mani. Scritta ed interpretata da Serena Balivo, Mariano Dammacco e Roberto Latini, inedito trio delle meraviglie, la pièce è una magia di rara bellezza da qualunque angolazione la si guardi: le parole, il loro stesso curatissimo suono, le musiche di Gianluca Misiti, ma anche i silenzi; i corpi e la luce che sembrano emanare, ma anche le ombre che si agitano sopra e sotto il palco; e poi gli oggetti, i costumi, le discese ardite e le risalite sugli scalini di un altare sempre troppo alto, erto, distante, creano una performance difficilmente replicabile, segno distintivo di una incontestabile maturità artistica.
Il teatro di Dammacco – e, ça va sans dire, dei suoi compagni di viaggio – appare sempre più come una dichiarazione passionale nei confronti del pubblico, una lettera d’amore in cui ogni parola è stata analizzata, pesata, meditata, ponderata, frutto di un visibilmente accurato lavoro di scrittura che, però, non sembra concludersi a tavolino, ma che – ritengo – resti sempre assolutamente aperto, così da poter mutare in maniera compiuta se non il significato intrinseco dell’opera perlomeno la sua estrinsecazione, cercando il modo più consono e diretto per farvi confluire l’energia sociale prodotta, esclusivamente accogliendo le reazioni del pubblico stesso, che non tardano a manifestarsi ogni sera, passando dal riso al pianto senza soluzione di continuità, grazie proprio alla potenza del testo ma anche alle straordinarie interpretazioni (divini la Balivo, in ogni occasione, e Latini quanto incisivo, nella sua pur breve apparizione, Dammacco).
Afferma Stephen King che “smettiamo di cercare i mostri sotto al nostro letto quando realizziamo che sono dentro di noi”; sia esso sconosciuto, a noi alieno, o familiare, tanto da viverci in coppia o da contenerlo in noi, il tema del mostro, o dell’altro più in generale, consente alla poetica della Piccola Compagnia Dammacco di manifestarsi nuda, nella propria accecante bellezza, e definita, in tutta la sua deflagrante potenza, giungendo, in entrambi i lavori teatrali, ad un finale che lascia storditi non solo per l’incanto ma anche per la capacità di toccare corde, che sicuramente appartengono ai cuori presenti tanto sul palco quanto in platea, e di chiudere cerchi della mente, magari grazie ad una danza o ad un gioco infantile, che credevamo irrimediabilmente irrisolti, riscoprendo un anelito di gioia anelata che, seppur inconfessabilmente, condividiamo tutti.
Pasquale Attolico