“Idea per un racconto sulla gente a Manhattan, che si crea costantemente dei problemi veramente inutili e nevrotici, perché questo le impedisce di occuparsi dei più insolubili e terrificanti problemi universali … ah, ehm … beh … deve essere ottimistico: “Perché vale la pena di vivere?” … È un’ottima domanda … beh … ci sono certe cose per cui vale la pena di vivere … ehm… per esempio… ok … ehm … per me … boh … io direi… il vecchio Groucho Marx, per dirne una e … Joe Di Maggio e … il secondo movimento della sinfonia Jupiter e … Louis Armstrong, l’incisione di “Potato Head Blues” e … i film svedesi, naturalmente … “L’educazione sentimentale” di Flaubert … Marlon Brando … Frank Sinatra … quelle incredibili mele e pere dipinte da Cézanne … i granchi da Sam Woo … il viso di Tracy …” (Woody Allen)
Ci sono spettacoli che, pur essendo imprescindibili, non andrebbero recensiti, opere che riescono anche ad andare oltre il pensiero e la volontà di chi li crea, rappresentazioni che non si dovrebbe nemmeno provare a decodificare e su cui non andrebbe intimamente investigato, ben sapendo che nascondono, nelle curve più inaccessibili della memoria, trappole infinite, tanto più pericolose quanto più si prefiggano di illuminare con le luci della ribalta angoli bui dell’anima di ogni essere umano, sentieri impervi, cosparsi di ciottoli che feriscono chiunque ci si avventuri, che non dovrebbero mai – e forse mai avrebbero dovuto – essere battuti né solcati, se non si fosse animati dalla perfetta volontà, come novelli Dante alle prese con un personalissimo viaggio alla (ri)scoperta degli innati gironi infernali, di finalmente comprendere il significato dei nostri incubi ancestrali, delle gabbie – forse dorate – che ci siamo costruiti addosso quasi senza accorgercene e che ora ci impediscono di respirare, di vivere, di mostrarci nudi, liberi, puri.
A questa genia appartiene senza dubbio “Every Brilliant Thing”, l’opera teatrale generata nel 2013 dalla penna di Duncan Macmillan, con l’ausilio di Jonny Donahoe – che ne è stato anche il primo interprete -, come fosse un’autobiografia malinconicamente brillante scandita da una infinita lista di “cose per cui vale la pena vivere” che – almeno ai miei occhi – appare come la naturale prosecuzione della geniale trovata di alleniana memoria contenuta nel capolavoro cinematografico Manhattan e riportata in apertura di articolo. Partendo da tale improbabile elencazione, stilata nel tentativo di persuadere sua madre a rinunciare ai propri intenti suicidi, l’autore sembra invitare ognuno di noi a ripensare al ruolo che ha assunto tanto nella propria vita quanto in quella degli altri esseri umani, anche i più remoti, ricordandoci il teorema di John Donne secondo cui “nessun uomo è un’isola”; ne deriva, quindi, – lo si voglia o no – che tutti influenzeremo, con il nostro modus vivendi, le maree delle ‘coste’ che visiteremo, conosceremo, condivideremo, ameremo, con tutte le potenziali ripercussioni che ogni scelta nasconde. In altre parole, Macmillan, andando oltre il solito onanistico monologo, finisce per creare una collettiva seduta psicanalitica che coinvolge, in una esperienza unica nel suo genere, il pubblico, spingendolo ad esaminarsi nella sua nudità e nella sua povertà, ad inerpicarsi per un sentiero ripidissimo ed intriso di insidie che pare non avere alcuna destinazione, non intravedendosi all’orizzonte alcuna linea di confine, alcun traguardo, alcun(a) fine che non si materializzi nell’accettazione di sè.
Dal 2021, grazie all’ottima traduzione di Michele Panella, “Every Brilliant Thing – Le cose per cui vale la pena vivere”, coprodotto da CSS Teatro stabile di innovazione del FVG e Sardegna Teatro, viene messo in scena in Italia con la regia a quattro mani di Fabrizio Arcuri e Filippo Nigro, che ne è anche protagonista assoluto, ed è in questa versione che è stato – per nostra fortuna – inserito nel cartellone della Stagione 2022.2023 ‘Sconfinamenti‘ del Teatro Kismet, curata da Teresa Ludovico per Teatri di Bari.
A luci ininterrottamente accese, senza mai guadagnare il palcoscenico, ma restando in platea per tutti i sublimi novanta (ed oltre) minuti dello spettacolo, interagendo con gli spettatori, anzi inseguendoli, braccandoli, stimolandoli, pungendoli, Nigro si accolla l’ingrato compito di porre in essere l’estremo tentativo di salvarci dalle nostre stesse oniriche paure, vivendole (o forse rivivendole) per noi, offrendosi quale magnifico capro espiatorio, in un incessante blackout emotivo che non concede alcuna ipotesi di astrazione; non è solo l’artista – che tanto amiamo, soprattutto per le sue incursioni cinematografiche – che qui fa del suo corpo e della sua voce il perfetto strumento per descrivere le umani passioni, lasciandosi attraversare se non abitare da loro, ma è l’Uomo, con le sue ferite laceranti, i suoi solchi, i suoi mostri, i suoi fantasmi, le sue paure, le sue aspettative, “i suoi ricordi, le sue istantanee, i suoi tabù, le sue madonne”, avrebbe detto Rino Gaetano, che prova a ricomporre il puzzle della propria vita, ricavandone l’istantanea di una barca, se non una zattera, in alto mare che, pur tra partenze, approdi e naufragi, sembra comunque riuscire infine a mantenere la direzione, l’itinerario, la rotta.
L’iniziale seduta psicanalitica, così, si fa sublime catarsi, illuminante rito iniziatico, percorso di rinascita e riscoperta, viaggio di caleidoscopica superba bellezza che è ardita discesa agli inferi dell’umana introspezione ma, anche e soprattutto, sublime risalita “a riveder le stelle”, verso quella salvezza che la mente forse non riesce sempre a concepire, ma che pur è presente in ogni anelito vitale. Alle prese con quella sinfonia di indicibile bellezza, che spesso sfocia nella più pura improvvisazione – e il jazz c’entra nello spettacolo: eccome se c’entra! – anche per l’imprevedibile apporto dei complici scelti istantaneamente tra le poltrone, l’attore romano, forte di una innegabile immensa personalità, ne esce vincente al pari di un Keith Jarrett della parola, di un audace equilibrista che cammina sulla corda tesa da Macmillan, senza rete, che pare sempre sul punto di cadere e di perdersi, ma che riesce a catturare i cuori di tutti gli astanti sino a farli salire con lui su quel filo, su quel trapezio, su quella giostra che non conosce sosta. Il suo modo di prendere per mano, imbrigliare, guidare il pubblico ha dell’incredibile, del fantastico. E non è solo astuta Arte attoriale, ma è pulsioni e vibrazioni, riso e pianto, emozione e compartecipazione. È sangue che scorre in un corpo vibrante. È dono impagabile. È vita.
Pasquale Attolico