“Amsterdam”, un film bello senz’anima di David O. Russell, tentativo poco riuscito di unire Star e storie

Wikipedia definisce il cocktail, anticamente conosciuto in Italia con il nome di “bevanda arlecchina”, come una bevanda ottenuta tramite una miscela proporzionata ed equilibrata di diversi ingredienti alcolici, non alcolici e aromi. Un cocktail ben eseguito deve avere struttura, aroma e colore bilanciati; se eseguito senza l’uso di componenti alcoliche viene detto cocktail analcolico.

Il dizionario Treccani, più preciso, ci dice che la formazione della parola non è certa; tra le varie etimologie proposte, la più probabile e più accolta è quella che ritiene la voce una riduzione dell’angloamericano cocktailed «cavallo cui è stata parzialmente tagliata la coda, che si raddrizza come quella di un gallo», da cui «cavallo bastardo» (in quanto tale operazione non veniva fatta su cavalli di razza), e per estensione «uomo imbastardito», e infine (inizio sec. 19°) «bevanda bastarda» preparata cioè con un miscuglio di varî ingredienti.

Prendi tre personaggi profondamente diversi tra loro. Un medico povero, innamorato della figlia del suo ricco e conservatore professore di Park Avenue, un non troppo disciplinato militare di colore e una molto ricca signorina americana che fugge in Europa per cercare sé stessa. Aggiungi un generale progressista (quello che muore). Mescola con la Prima guerra mondiale, il nazismo agli albori ed il suo fascino nei confronti della società bianca e conservatrice. Una manciata abbondante di giallo, un pizzico di umanità sbandata ed ecco, agitato non mescolato, il cocktail di Amsterdam, il nuovo film di David O. Russel.

Per meglio presentare ai nostri occhi la bevanda si confeziona una fotografia patinata mixata tra i fotografi del primo Novecento e le inquadrature dei visi degli attori, memore dei primissimi piani di Sergio Leone. Il tentativo di questo film è di raccontare una storia, parzialmente vera, mescolando tutti gli ingredienti del cinema: sceneggiatura, attori, scenografie, costumi, personaggi, fotografia, riprese, musica e colori, in una miscela potenzialmente estasiante, ma con l’effetto di non riuscire ad equilibrare gli elementi. Ne scaturisce un racconto patinato ed esteticamente affascinante ma squilibrato, che, come un cocktail non riuscito, ubriaca di immagini senza coinvolgere il cuore e le emozioni.

Gli attori sulla scena si muovono, in certe occasioni, spaesati, quasi senza una meta, guidati da un regista che sembra agire senza consapevolezza. Christian Bale è oggettivamente sottotono e truccato in maniera imbarazzante; gli fanno fare scene in cui è veramente difficile capire il senso del personaggio e cosa ci sta a fare in mezzo agli altri attori, malgrado tutto lo sforzo del bravissimo Riccardo Scarafoni, il suo doppiatore. John David Washington non sbaglia la mira e centra una bella interpretazione, non particolarmente approfondita, ma che non annoia mai (cosa che invece accade in qualche passaggio del film), grazie anche al prezioso lavoro della voce di Jacopo Venturiero. Margot Robbie è semplicemente troppo bella e troppo elegante per essere vera, sempre con un’estetica da sfilata di moda (anche quando è sporca di sangue), con acconciature, vestiti e cappelli che non hanno mai una sbavatura o qualcosa che la renda un po’ più simile a noi umani; anche la sua voce italiana, Domitilla D’Amico, una delle migliori doppiatrici del nostro cinema, è troppo brava per essere vera. Tutti gi altri attori, una sfilata di star planetarie che comprende in ordine sparso Rami Malek, Robert De Niro, Anna Taylor-Joy, Michael Shannon, Matthias Schoernaerts, Alessandro Nivola, Chris Rok, Zoe Saldana, Timothy Olyphant, Taylor Swift, Andrea Riseborough, si agitano, con classe, ma senza darsi allo spettatore e al film. Una piccola menzione a parte per Mike Myers, piccolo camaleonte del cinema che ci regala, in un ruolo minore, con pochi gesti la fredda e sapida comicità anglosassone, con l’indispensabile collaborazione di Roberto Pedicini.

Brilla, nella sua algida bellezza, la fotografia di Emmanuel Lubezky, messicano a dispetto del cognome, con otto candidature agli Oscar e tre premi ricevuti. Incongrua, per gli anni in cui è ambientato, la colonna sonora, eppure, probabilmente, la cosa più efficace del film.

Chi ama le immagini e l’estetica pura, deve vederlo al cinema.

Marco Preverin

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