“Con tutte le persone che vivono su questo pianeta, e se ognuno di noi cerca qualcosa nell’altro, perché alla fine dobbiamo essere così soli? A che scopo? Forse il pianeta continua a ruotare nutrendosi della solitudine delle persone?” (Haruki Murakami)
C’è un baratro di indefinibile profondità fra l’isolamento volontario, dietro al quale ci si arrocca per proteggersi dalle delusioni delle relazioni interpersonali, e la solitudine indotta, quella che la socio-psicologia chiama “solitudine sociale”, quella detestabile sensazione di sentirsi escluso, negletto, dimenticato, abbandonato. Capita di ritrovarsi, o almeno di avvertirsi, come isole nell’oceano, come “un mare mai raggiunto da nessuna riva, un ponte da nessuna strada, un colore da nessuna luce”, direbbe Caramagna, e talvolta, se non spesso, questo accade proprio quando siamo nel mezzo di una massa indistinta di altri esseri umani, anche in situazioni a noi più familiari, già rivelate e vissute, eppure ugualmente percepite come estranee, avulse, aliene. L’ufficio, o il luogo di lavoro in genere, ad esempio, è senza dubbio tra gli spazi maggiormente imputati alla creazione di incolmabili distanze ravvicinate, di solitudini affollate da noti sconosciuti, in cui si sviluppa la consapevolezza dell’essere orfani, sensazione ben più grave e pressante se è l’ufficio stesso ad essere stato ‘dimenticato’, se si ha la certezza, o anche solo la percezione, di svolgere un compito inutile alla società, al prossimo e finanche a se stessi.
La geniale penna di Claudio Tolcachir ha saputo magnificamente trattare questi temi nel suo “Edificio 3 – Storia di un interno assurdo”, la produzione del Piccolo Teatro di Milano che, in un Teatro Kismet sold out, ha inaugurato “Sconfinamenti”, la Stagione 2022.2023 dei Teatri di Bari, come sempre curata da Teresa Ludovico. Grazie anche alla felice traduzione di Rosaria Ruffini, l’indiscusso talento drammaturgico di Tolcachir si è ancora dimostrato capace di partorire e mettere in scena storie e personaggi ‘straordinariamente normali’ e, al contempo, incredibilmente affini ad ognuno di noi; quel che più colpisce di “Edificio 3” è la capacità creativa di parlare dei nostri giorni, delle nostre miserie, delle nostre mancanze, collocandoli in luoghi in cui tutti gli spettatori si scoprono a loro agio, anzi, si ‘sentono quel luogo’ con tutto quel che emotivamente ne deriva. Ne viene fuori uno spettacolo che, fotografando esistenze in preda ad un devastante disincanto, sa essere anche durissimo, in modo che, nel mezzo di tante risate – e sono tante davvero -, si insinui un dolore malinconico, un pensiero triste, che sfocia in quel senso di irrisolto che – confessiamolo – ci accompagna tutti e che ha, alla base, quell’inconfessabile desiderio, se non proprio di felicità, di comprensione.
Sul palco si agitano figure di donne e uomini ormai marginali a se stesse, in cui la condizione d’esistenza – e non di sopravvivenza – si è inceppata, distaccata da anni da quel flusso indistinto che è la vita, dal tempo degli altri, costantemente in bilico tra il dire e il detto o il mai più, come se ogni fila di sillabe, anche la più alta o la più sincera, restasse impigliata nel dentro, come se nascesse già sapendo di morire un attimo dopo. Così, in questo inutile “ufficio delle cose – e delle esistenze – perdute” di paoliana memoria, i magnifici quanto serratissimi dialoghi tra i personaggi, pur muovendosi tra sogghigni e risa sfrenate del pubblico, hanno spesso la forma di un ricordo o, meglio, di un rimpianto di amore maledettamente cercato, alla cui straziante negazione si è reagito d’istinto chiudendosi a riccio nel proprio egoismo protettivo, immortalando un’evanescente rievocazione di, per citare Annie Ernaux, un “tempo in cui non saremo mai più”, in cui la tattica dell’allontanamento, della finzione, della dissimulazione ha preso il sopravvento su ogni relazione o possibilità di incontro, in una schizofrenia della solitudine che, nonostante senta il bisogno, finanche l’urgenza dell’‘altro’, non lo raggiunge mai, ma lo sfiora appena e lo scolora in infinite infrante schegge di possibilità di comunicazione sino a farlo sparire, riempiendo lo spazio creatosi di altri ‘se’ e di altro ‘sé’.
Gran parte della innegabile riuscita della pièce, che gode delle luci di Claudio De Pace e dei costumi di Giada Masi, si deve ai cinque divini attori impegnati, i quali costruiscono una sempre perfetta macchina teatrale, con ogni tassello, fatto di parole, intonazioni e sguardi, precisamente al suo posto, e, con una naturalezza disarmante che crea un filo rosso inequivocabile ed inestricabile con lo spettatore, si concedono generosamente alla scena, restandone ai bordi anche quando non vi sono impegnati, in un chiarissimo omaggio alla Commedia dell’Arte, e, di riflesso, danno un’opportunità di esistere ai personaggi che devono incarnare, consentendo ai loro cinque egocentrici pianeti di entrare in rotta di collisione. Innanzitutto, i tre fantastici colleghi d’ufficio: Giorgia Senesi è Sandra, single che si finge felicemente coniugata, desiderosa di maternità, infinitamente insicura dietro la corazza che si è costruita addosso; Valentina Picello è Monica, perfettina sconclusionata, indiscreta, premurosa sino allo spasimo, zitella per scelta (‘degli altri’, però), restata senza fissa dimora, fragile fiore in balia dei venti di una vita troppo impetuosa per lei, segretamente innamorata del suo collega Ettore, che trova in Rosario Lisma una impressionante personificazione, cinquantenne mammone che solo alla morte della madre cercherà di appagare il suo bisogno d’amore e, soprattutto, comprendere le sue attitudini sessuali. Stella Piccioni (Sofia) e Emanuele Turetta (Manuel), bravissimi seppur un po’ in ombra per motivi di copione, sono una coppia in perenne conflitto, vera, intensa, disperata e controllata nella sua fame di amore lei quanto tormentato, violento, debole, enigmatico lui, due elettroni che rimbalzano impazziti attorno ad un unico nucleo indefinito, all’apparenza scollegati dalla storia degli altri tre protagonisti sino a quando il finale non giungerà a ricomporre l’improbabile puzzle di vite spezzate.
Se, come affermava Emily Dickinson, “ha una sua solitudine lo spazio, solitudine il mare e solitudine la morte – eppure tutte queste son folla in confronto a quel punto più profondo, segretezza polare, che è un’anima al cospetto di se stessa: infinità finita”, allora Tolcachir in quella infinità ci si è buttato dentro come fosse la battaglia definitiva, amaramente fotografando, infine, la trincea vuota di chi quella guerra non l’ha né vinta né persa ma, semmai, solo evitata, come per evitare un dolore, non consumarlo, non indossarlo mai e, per questo, lasciarlo involuto, inespresso, inabitato, ma sempre presente nell’anima, giungendo a rinunciare anche a vivere davvero, essendo consapevole che non esiste conflitto che non comprenda l’‘altro’; in quest’ottica, in fondo “Edificio 3 – Storia di un interno assurdo” altro non è se non uno splendido tentativo di costringerci a metterci di fronte ad un impietoso specchio, così da poter finalmente comprendere, in modo da trovare la forza di allontanarcene immediatamente e per sempre, che gli occupanti di quell’ufficio siamo noi.
Pasquale Attolico
Foto dal sito del Piccolo Teatro di Milano