“Dante” di Pupi Avati con Sergio Castellitto: un atto d’amore e un risarcimento per l’uomo Alighieri più che per il padre della lingua italiana

Affrontare la vita di Dante Alighieri, raccontandone la storia, senza diventare stucchevole o banale o peggio inutilmente incensare una figura essenziale nello sviluppo della lingua che oggi parliamo, e quindi della cultura stessa del popolo italiano, è opera che farebbe tremare i polsi a chiunque.

Solo chi ha mestiere e vero talento può pensare di dirigere un film su Dante senza mai affrontare la Divina Commedia se non per raccontare o meglio spiegare l’essenza della vita di chi fu esiliato senza colpa, vittima degli scontri politici e della violenza dell’epoca; occorre che dietro la macchina da presa ci sia un profondo conoscitore del medioevo, di quella falsa età di mezzo in cui, in Italia, era la Chiesa secolare a influenzare le sorti di molte vite umane punite, come Dante appunto, per il solo fatto di aver cercato di fare il bene del proprio popolo.

Pupi Avati con il suo “Dante” ci racconta una vita per salti, quasi per episodi, che sono legati fra loro dal viaggio di Boccaccio, occasione narrativa, ma soprattutto dalle figure che, nel bene o nel male, hanno influenzato la vita del poeta.
L’amore giovane e intenso per Beatrice, che sarà sempre presente nella mente di Dante che l’ama anche quando si avvia insieme al suo sposo “combinato” per la prima notte di nozze, il matrimonio con Gemma Donati, mai amata e dalla quale non è stato mai riamato, e gli amori occasionali durante l’esilio povero e solitario.

Il Boccaccio si fa strumento narrativo, ed altri non è se non lo stesso Avati, che lascia la sua impronta indelebile in ogni fotogramma della pellicola, nella quale Dante non invecchia mai; e anche quando, per necessità, lo si deve rappresentare non più giovanissimo, sostituendo persino l’attore che lo interpreta, si lascia che mantenga inalterato l’aspetto fisico, lo sguardo sognante o innocente di chi cerca qualcosa di più profondo negli eventi che attraversa.
Il viaggio riparatore si trasforma presto in una ricerca dell’animo dantesco e della sua fisicità che, solo alla fine, davanti alla figlia, si scioglierà nel pianto liberatorio di Boccaccio/Avati.

Il film è girato nei magnifici borghi medievali che ancora sono presenti nel nostro paese, soprattutto nell’Italia centrale, e la rappresentazione avviene cercando di riprodurre l’epoca, non solo nelle sue vicende storiche, ma soprattutto, nella quotidianità problematica e dolente di vite sempre precarie affidate al Signore, per non dire al caso o alla fortuna.

Gli attori che si avvicendano nella rappresentazione sono sempre guidati con maestria.
L’elenco è lungo e andrebbero citati tutti: ovviamente Sergio Castellitto (Boccaccio/Avati) di cui non si può che dire bene per la professionalità e la bravura note ed indiscutibili; Enrico Lo Verso, suo fedele accompagnatore; Alessandro Haber, nell’insolito ruolo dell’abate che difende la sacra Romana Chiesa; un perfido e diabolico Leopoldo Mastelloni nel ruolo di Bonifacio VIII (d’altronde condannato all’inferno quando era ancora in vita). Alla parte femminile questo film dedica poco, salvo alle figure di Beatrice, ben intrepretata da Carlotta Gamba, e di Gemma Donati, interpretata da due attici, tra cui la splendida Erika Blanc. Alessandro Sperduti, con il difficile compito di rendere Dante Alighieri in giovane età (poi sostituito da Giulio Pizzirani) in maniera non moderna, ma nemmeno da antiquariato, ritrae una figura non artefatta, che riesce a coniugare le esigenze della rappresentazione con la necessità della verità storica. Di Gianni Cavina, che ci ha lasciato poco dopo la fine delle riprese, un cameo e un ricordo commovente.

La colonna sonora accompagna le scene, sempre parche di spettacolarità ma ricche di particolari, ed i momenti salienti del film in maniera soave, senza prevalere e senza sparire. E’ parte integrante dell’opera.

Come evidenziato da tanti spettatori e commentatori, un atto d’amore nei confronti dell’uomo più che del poeta o, come spiegato dal regista, un risarcimento, sia pure parziale, per le ingiustizie subite.
Un piccolo grande film, immancabilmente di Pupi Avati.
Andatelo a vedere al cinema.

Marco Preverin

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