“L’immensità”, il film autobiografico di Emanuele Crialese, è una grande prova d’attrice di Penélope Cruz in un contesto non sempre adeguato

La diversità, il sentirsi non a proprio agio nel corpo, visto come diverso da quanto gli altri vorrebbero vedere, mentre l’anagrafe testimonia una differenza fra quello che l’io suggerisce e la legge impone, è stato spesso oggetto di racconti e di storie che hanno voluto comunicarci la difficoltà e i drammi che gli esseri umani non omologati nel bianco o nero del genere sessuale vivono ancora oggi.

La scelta di raccontare la diversità non omologata ha spesso assunto i toni della tragedia, mentre in questa storia il regista ha evidentemente voluto usare toni meno dirompenti dal punto di vista emotivo, rappresentando una realtà nell’ambito familiare e parentale prima della sua vera esplosione e con le ipocrisie tipiche di una ambiente borghese anni ’70 del secolo scorso, in cui i ruoli dei componenti della famiglia, numerosissima in questo film, sono definiti ed immutabili.
Il marito è marito e la moglie è moglie. Quest’ultima si deve occupare dei figli, che non sono di competenza del padre, per cui, se c’è qualche stranezza, è la genitrice che deve rimediare.

In questo contesto, la ricerca della propria definizione di genere, dal femminile al maschile, è ancora, per certi versi, embrionale e non vuole scatenare conflitti, ma piuttosto trovare un suo spazio in cui manifestarsi libera. Le dinamiche familiari, però, nuocciono alla madre più che all* figli*. E’ lei a non trovare la sua dimensione affettiva e si rifugia nelle vacanze per benestanti dell’epoca in cui le famiglie sono al mare e i mariti in città. Oppure trova negli spettacoli televisivi, rigorosamente in bianco e nero, una sorta di mondo fantastico in cui può immedesimarsi nella protagonista. Questi inserti sono, per certi versi, la parte del film che più diverte. Il balletto di “Prisencolinensinainciusol” di Celentano, oppure “Rumore” della Carrà ballato in famiglia stile “Il grande freddo”, oppure ancora “Love story” nella versione tradotta per la voce della Pravo e, nel finale, di Dorelli.

Emanuele Crialese, che in occasione dell’uscita del film ha fatto coming out dichiarando di essere nato donna e solo dopo essere diventato uomo, ci accompagna in una storia ricca di spunti, ma che non riesce mai a decollare veramente, quasi che i sentimenti siano materia troppo spinosa e troppo intima per poter essere esposti al pubblico, restando compressi e, in parte, inespressi.

Le atmosfere dei riti della borghesia di quegli anni sono ricostruite in maniera fedele, ivi compresa la processione in casa – obbligatoria per legge – per mettere il Bambino Gesù nel Presepe.

Dei piccoli attori, i figli, non si può dire molto, sia per il ruolo che per l’età; di certo, Luana Giuliani (Adriana/Andrea) rappresenta una bella promessa perché, malgrado l’età, non tende a strafare, non pare sentire la necessità di dimostrare la bravura che, indubbiamente, c’è. Aurora Quattrocchi, la mamma di lui, ci rimanda l’immagine della nonna tradizionale e tradizionalista con una recitazione fluida e perfettamente nel ruolo. Di Vincenzo Amato (Felice) non può che apprezzarsi la sicura professionalità e precisione in un ruolo non molto presente nelle scene, ma di innegabile rilievo nella storia, che viene interpretato con i giusti toni.

Quanto a Penélope Cruz, quando decide di fare l’attrice riempie da sola la scena: senza doppiaggio, senza rete, recita e canta nelle sue e nelle vesti di Raffaella e Patty, passando con disinvoltura da un registro all’altro senza sbavature. Brava! Brava! Brava!

Il film lo trovate al cinema, dove, per fortuna, continua a riempire le sale.

Marco Preverin

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