La Prima assoluta di “Roméo et Juliette”, il capolavoro di Charles Gounod, al Teatro Petruzzelli di Bari incorona le donne: ovazioni per la protagonista Claudia Pavone e per la direttrice Roberta Peroni

In questa nuova opera, Gounod – molto ben assistito dai suoi librettisti che questa volta hanno fatto con straordinaria abilità il libretto – ha superato se stesso. Regna su questo caos, che vi resta nella testa dopo un solo ascolto di una simile opera, un ricordo di grandezza che domina tutto. La tenerezza e la passione sono ardenti, le battaglie piene di colori, le lacrime sono vere, ma, in ogni misura, il segno distintivo dell’opera è la grandezza. Il soffio che l’ha ispirata è potente ed esce da un petto robusto. “Roméo et Juliette” può collocarsi accanto alle più ammirevoli opere musicali create in questo secolo e al di sopra di quanto è stato fatto già da anni. Posso dire che sono uscito dal Théâtre-Lyrique commosso e trasportato, e che in questo momento io sono ancora turbato da quanto ho sentito.” (Eugène Tarbet su “Le Figaro” del 29 aprile 1867)

Sei minuti. Tanto dura, all’incirca, il Prologo creato da Charles Gounod per il suo “Roméo et Juliette”, ouverture di rara bellezza in cui, sulla canonica introduzione orchestrale caratterizzata da due temi, il primo solenne ed il secondo brioso, irrompe l’angosciante, se non finanche opprimente, Coro a cappella, cui partecipano i protagonisti tutti, di “Vérone vit jadis deux familles” che, sintetizzando i punti salienti del dramma che si andrà a rappresentare, sembra giungere e discendere in linea retta dalla migliore tradizione teatrale dell’antica Grecia o – se si vuole – anticipare di decenni la creazione del flashback cinematografico, prima di sciogliersi nel sublime tema, esposto dai violoncelli, che consegna all’immortalità l’amore dei due sfortunati amanti.

Appena sei minuti, ma sono ogniqualvolta più che sufficienti a far nascere nella mia mente un interrogativo: Perché? Perché il capolavoro di Gounod, nonostante l’immediato successo riscosso al suo debutto e pur essendo universalmente riconosciuto come un emblema nel suo genere, non assurge al ruolo che gli compete, rientrando internazionalmente nelle opere di repertorio, così da permettergli di godere di una più che meritata presenza nei circuiti lirici, circostanza che avrebbe – con tutta probabilità – permesso a noi – pubblico del Teatro Petruzzelli – di non aspettare l’anno 2022 per poter assistere alla sua prima messa in scena assoluta sul palcoscenico del nostro Politeama? Perché?

Bando ai rimpianti, fosse solo per quanto detto sin qui non si può non plaudire ancora una volta alle scelte operate dalla Fondazione del Teatro Petruzzelli, e – ça va sans dire – dal suo Sovrintendente Massimo Biscardi, per la definizione del cartellone della Stagione d’Opera 2022, che riparte, dopo la pausa estiva (repliche ancora oggi, sabato 17 settembre, e domani, domenica 18 settembre, sempre alle 18.00), proprio con la produzione dell’Opéra Comique, realizzata in coproduzione con Opéra de Rouen Normandie, Bühnen Bern e la stessa Fondazione Teatro Petruzzelli, che gode della prestigiosa firma di Èric Ruf alla regia.

Forte dell’equilibrato, essenziale ed ispirato libretto di Jules Barbier e Michel Carré, ossequiosamente rispettoso del testo shakespeariano nella traduzione francese realizzata nel 1860 da François-Victor Hugo, se si eccettua il suggestivo quanto visionario quadro del matrimonio – che finisce per abortire grazie alla finta morte della protagonista – di Giulietta con Paride, che si ritiene inseritovi su insistente istanza di Léon Carvalho, direttore del Théâtre Lyrique, “Roméo et Juliette”, originariamente suddivisa nel citato prologo e cinque atti, affrontati dal compositore con il furore che lo contraddistingueva e che lo conduceva spesso alle soglie di terribili crisi di nevrastenia durante la fase creativa, è la sola opera di Gounod baciata da un immediato successo di pubblico e critica; eppure, nel corso degli anni successivi alla Prima del 1867, fu a lungo vittima di rimaneggiamenti, di fatto imposti al compositore, che mal sopportava questi repentini cambi di direzione rispetto alla definita, determinata e risolta drammaturgia dell’iniziale dichiarazione di intenti; significative, in tal senso, appaiono la ripresa del 1873, affidata dalla stessa Opéra Comique alle cure di Georges Bizet, nell’occasione anche direttore d’orchestra, che operò le modifiche sotto l’attenta supervisione dello stesso Gounod, e la successiva versione del 1888, per cui l’autore musicò, tra l’altro, tutte le sezioni parlate.

All’originario spirito sembra invece rifarsi la regia di Ruf, pregna di un rigore estetico che è parso sorprendere e disorientare la platea barese; nel tentativo di mettere in scena la storia d’amore per antonomasia “liberandola da ogni travolgente romanticismo”, il direttore della Comédie Française, qui anche ideatore di una scenografia dai grandi blocchi rettangolari dai toni grigi e pallidi che si muovono e creano lo spazio, sposta le vicende dei Montecchi e dei Capuleti collocandole nel periodo storico successivo ad una delle due guerre mondiali (molto più probabilmente la seconda) in un indigente sud Italia (capiremo nell’ultimo quadro che è la Sicilia, ma potrebbe benissimo essere un paese dell’entroterra pugliese o, finanche, la nostra Bari Vecchia), che i bombardamenti e la miseria hanno condannato ad essere spoglio e povero, regalandogli una cornice di mura fatiscenti sferzate dalla mutevole luminosità del giorno e di umili interni piastrellati con austerità monastica, e che le inamovibili credenze popolari ed il caldo opprimente rendono arido, in cui appare fondamentale, spesso in modo sproporzionato ed intemperante se non vitale, la violenta ed esacerbata tensione del conflitto sociale (magnificamente messo in scena, ad esempio, nel “West Side Story” di Jerome Robbins e Robert Wise sulle immortali musiche di Leonard Bernstein, di recente riportato sullo schermo da Steven Spielberg), scelta che, soffermandosi oltremodo sul dominio etico tanto nel conflitto tra rivali quanto nella avventura amorosa, finisce per lasciare sullo sfondo i profili psicologici dei personaggi, disinteressandosi della loro età adolescenziale, delle paure irrazionali e, soprattutto, delle passioni, tormenti, pulsioni ed emozioni, ben presenti nelle pagine letterarie del Bardo ed in quelle musicali di Gounod.

Questa innovativa concezione della storia ne riconfigura i margini desacralizzandoli, ma non sempre in modo armonico, credibile e gradevole, nonostante le belle coreografie di Glyslein Lefever che si spingono sino ad inglobare anche il Coro del Petruzzelli; pur sorvolando sulla raffigurazione dei componenti delle due famiglie, che sembrano perennemente sortiti dalla scena del matrimonio de “Il padrino” di Coppola, non può non ammettersi che procuri un certo disagio vedere i due amanti agire con, sullo sfondo, set di bagni e lavandini, ovvero vivere la loro prima notte d’amore in un letto che, forse per rappresentare la loro follia amorosa, sembra rubato ad una corsia d’ospedale: se follia doveva essere, allora Ruf avrebbe dovuto – a mio modesto parere – spingersi oltre, mostrandoci, ad esempio, i corpi nudi dei due novelli sposi, evitando di farci scoprire Romeo bardato in imbarazzanti mutandoni, sinceramente tutt’altro che passionalmente eccitanti.

Anche l’idea di chiudere l’Opera, che non conosce la pagina della riconciliazione tra le due compagini ma si interrompe con il ‘vero’ suicidio di Giulietta ed il ricongiungimento nella morte dei due eroi, inserendo la giovine tra i morbosi scheletri della sua famiglia, ad immagine dei famosi reperti delle catacombe di Palermo (‘location’ dalle forti suggestioni già utilizzata, con risultati ben più esaltanti, da Emma Dante), risulta infine forzata, dato che costringe la poverina a restare lungamente in piedi, premuta contro il muro, drappeggiata, o, meglio, compressa, nel coloratissimo costume funerario creato da Christian Lacroix.

Da incastonare, invece, come puro diamante, grazie anche alle seducenti luci di Bertrand Couderc, mi è sembrata la scena del balcone, talmente bella ed inebriante da valere la citazione nelle antologie dell’Opera: superato il timore dovuto al precario equilibrio di Juliette su quello che – di fatto – è un cornicione, non è possibile non lasciarsi conquistare dall’immagine della fanciulla shakespeariana restituitaci, irradiata dal bagliore azzurrognolo delle stelle, principessa del nulla appollaiata in cima alla sua torre di solitudine, splendido capitello di una magnifica architettura umana, vibrante come un fragile ma temerario uccello che conosce le leggi del cielo eppure decide di involarsi sfidandone le convenzioni, sublimando, in quel consapevole incontro con la morte, il suo virgineo amore.

È Juliette, dunque, con la sua natura incredibilmente vigorosa e ribelle, la vera protagonista di questa versione transalpina; più che giusto, pertanto, che fossero le donne ad essere le trionfatrici della Prima assoluta dell’Opera al Petruzzelli. E così è stato, a partire da Claudia Pavone, eletta nel ruolo principale dal cast secondario a quello della Prima nelle ore precedenti la messa in scena, che ci consegna una Juliette compiuta per lirismo e classe, forte di una voce dalla non comune estensione, perfettamente modulata tra forti e piani quanto appassionata nel fraseggio e nella generosità dello slancio, ma anche dotata di personalità d’interprete accesissima e di una padronanza scenica da autentica star; alla sua impagabile performance, non è possibile non aggiungere quelle di Antonella Colaianni e di José Maria Lo Monaco, rispettivamente Gertrude, la tata di Giulietta, e Stéphano, ruolo en travesti, entrambe elegantemente impeccabili, capaci di offrire prove di grande pregio che soddisfano appieno tanto la mai facile partitura quanto le richieste registiche. Ottimi anche tutti gli interpreti maschili: Ivan Magrì è un degno Roméo, da elogiare per disinvoltura vocale, un po’ meno per quella scenica; Christian Senn è un Mercutio incisivo, dalla personalità brillante e musicalissima, che spesso ruba la scena ai protagonisti; spavaldo e scolpito il Tybalt di Valerio Borgioni; autorevoli il Frère Laurent di Byung Gil Kim ed il Duc de Vérone di Jungmin Kim; all’altezza tutti gli altri, da Rocco Cavalluzzi (Capulet) a Murat Can Guvem (Benvolio), da Marcello Rosiello (Gregorio) a Carmine Giordano (Le Comte Pâris) e Carlo Sgura (Frère Jean).

Ma se l’esecuzione musicale può dirsi perfettamente riuscita in tutte le sue componenti, va comunque affermato che la stella che più di ogni altra ha brillato di luce accecante nella notte barese è stata senza dubbio quella della direzione di Roberta Peroni, già Direttrice musicale di palcoscenico della Fondazione Petruzzelli, giovane talento in sfolgorante ascesa grazie ad una incontrovertibile personalità e ad una definita autorevolezza tecnica. Chiamata al debutto nelle ore precedenti la messa in scena, a causa della positività al Covid del direttore incaricato Jordi Bernàcer, la Peroni, certamente anche avvalendosi intelligentemente delle tre settimane di prove che il maestro spagnolo – atteso per i prossimi appuntamenti della Stagione Concertistica – aveva approntato, ha coraggiosamente e spavaldamente accettato l’impegno, appropriandosi della pagina gounodiana e operandone una lettura elegante, vibrante, tersa, dimostrando di avere nel suo DNA l’inusitata capacità di rendere con misura eterogenea tutte le atmosfere della partitura, così da esaltarne tanto i momenti di colore e caleidoscopici quanto quelli più poetici ed intensi, raggiungendo la perfezione nelle estasi sentimentali dei duetti d’amore, incantati e lunari, nella tensione dei concertati e in particolare nel progressivo morire del finale, in cui sonorità sempre più sommesse hanno accompagnato lo spegnersi dei due amanti con effetto struggente ed indimenticabile.

Naturalmente tutto questo non sarebbe stato possibile se la Direttrice non fosse stata magistralmente supportata da una prova maiuscola, austera, memorabile dell’Orchestra, tornata ai suoi più gloriosi fasti nonostante fosse in parte rimaneggiata, e del Coro del Teatro Petruzzelli, quest’ultimo addirittura solenne, grazie, come sempre, alla sapiente arte preparatoria del maestro Fabrizio Cassi: ricchezza d’invenzione, mestiere magistrale, senso della misura si sono composti in una sintesi qualitativamente prestigiosa, che riusciva a tenere elevata la temperatura espressiva globale con sorprendente continuità, in modo da sedurre l’ascoltatore con un’esecuzione di assoluto livello, salutata da tutto il pubblico con applausi entusiasti, che si sono fatti ovazioni all’apparire della Pavone e, soprattutto, della Peroni.

Pasquale Attolico
foto: Clarissa Lapolla photography
per gentile concessione della Fondazione Petruzzelli

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