“Se Cenerentola avesse avuto un orologio nel cuore avrebbe fermato il tempo a mezzanotte meno un minuto e se la sarebbe spassata al ballo per tutta la vita.” (Mathias Malzieu)
“Penso che la vita non sia una sfera chiusa. C’è una parte che comunica con l’esterno, come in un calice. E le voci che senti sono parte di te, ma anche parte di qualcosa d’altro, e ti rendono consapevole della differenza tra ‘entità inferiori’ e “entità superiori”. C’è una gerarchia in ciascuno di noi.” (Ray Cesar)
È “La Cenerentola” di Gioachino Rossini o di Emma Dante che ha momentaneamente chiuso – prima della pausa estiva e della ripresa a settembre con “Roméo e Juliette” di Gounod – la Stagione d’Opera e Balletto 2022 della Fondazione del Teatro Petruzzelli?
Per rispondere, forse mai come questa volta occorre fare un passo indietro, sino a giungere alle radici stesse de “La Cenerentola”, il dramma giocoso che Gioachino Rossini realizzò su libretto di Jacopo Ferretti, rappresentato per la prima volta il 25 gennaio 1917 al Teatro Valle di Roma.
Cenerella, fiaba popolare che pare abbia le sue origini nell’antico Egitto, conosce la prima versione nota in Occidente per mano di Giambattista Basile che inserisce nel suo celeberrimo “Lo cunto de li cunti overo lo trattenemiento de peccerille”, pubblicato postumo tra il 1634 ed il 1636, la storia de “La gatta Cenerentola”, che pare innegabile fosse, poi, stata assunta a fonte di ispirazione per le successive versioni della fiaba di Charles Perrault e dei fratelli Grimm.
Ora, tutti sappiamo quanto Basile sia autore a dir poco setacciato – se non eletto a imprescindibile vate – da Emma Dante, tale e tante sono le splendide opere teatrali che ha tratto da quelle pagine; ebbene, è possibile ritenere che anche questa sua lettura del dramma giocoso rossiniano in qualche modo richiami l’oscuro mondo fiabesco creato dal genio dello scrittore partenopeo, non fosse altro che per una impalpabile ma sempre presente malinconia che permea l’Opera tutta, in cui è possibile, ancora una volta, ritrovare le tracce di tutto l’universo geniale e visionario della regista palermitana.
La Dante (la cui regia è stata ripresa da Federico Gagliardi) utilizza, ad esempio, l’espediente dello splendido libretto che Jacopo Ferretti realizzò per Rossini, in cui la matrigna e la fata sono trasformati in uomini, per fotografare nuovamente un mondo esponenzialmente maschile, fatto di violenze e soprusi, cui Angelina/Cenerentola si ribella, finendo, per questo, legata ad una catena (altro feticcio dantesco) dal patrigno e da questi finanche selvaggiamente e ripetutamente picchiata, stavolta con l’aiuto delle due figlie, nella scena del temporale; ed è una scelta che ci riporta immediatamente ad una cronaca orribilmente e drammaticamente attuale, in cui i diritti della donna, che l’assassino di turno o, addirittura, la Corte Suprema americana vorrebbero cancellare, vengono sistematicamente violati, profanati, negati, riportandoci tutti ad un tempo lontano e selvaggio, ad un medioevo della coscienza che credevamo – a torto – di aver abbandonato. E, a ben vedere, anche la divertentissima partecipazione al ballo delle numerose pretendenti del Principe (tra cui appaiono anche numerosi uomini en travesti), tutte armate sino ai denti per ‘far fuori’ le rivali, salvo poi rivolgere le pistole contro se stesse una volta constatato il fallimento del compito che era stato loro assegnato, fa emergere un forte atto d’accusa e denuncia verso un mondo patriarcale fatto di contratti matrimoniali obbligati e gravidanze indesiderate che ancora funestano la nostra società.
Il tempo è indubbiamente un’altra delle chiavi di lettura della regia: Angelina/Cenerentola, all’apertura del sipario sulla magnifica Overture rossiniana, si risveglia con un orologio di dalìniana memoria, impresso nella carne, come fosse una congenita cintura di castità, e bloccato sulle ore ventiquattro (o zero, che dir si voglia), come se la sua urgenza, la sua fretta di vivere non sia più determinata da qualcosa che è fuori (il canonico rintocco della mezzanotte durante la festa al Castello, che, per inciso, nasce con Perrault ed in Basile non c’era), ma da un’inquietudine che le appartiene e che non l’abbandona un solo istante; l’orologio, occhio del tempo, archetipo e specchio della vanitas umana, introducendo un’altra prospettiva, se non addirittura altre prospettive, non scandisce più le ore, bensì annuncia l’infrazione di una regola, se non addirittura di un tabù, l’ormai prossimo termine della precedente vita, votata ad un rinchiudersi in una mesta prigione di fantasia sovrannaturale, ed il contestuale inizio della vita reale ma, paradossalmente, fiabesca, che la affrancherà dalla sua condizione miserevole e, al contempo, le regalerà l’esistenza che merita tanto per lignaggio quanto per indole.
Su quel meccanismo preciso, ossessivo, impietoso, l’inventiva di Cenerentola ha anche partorito una personale immaginaria coorte di suddite/amiche, suoi riflessi, sei bambole meccaniche identiche a lei (che invero ricordano un po’ i topini aiutanti della Disney), ma con l’aggiunta di chiavetta ricaricabile sulla schiena, frutti, soprattutto, della solitudine cui è condannata, che diventano, però, elemento caratterizzante e finanche differenziante quando le permettono di riconoscere in uno scudiero, che in realtà è il Principe Don Ramiro sotto mentite spoglie, un suo simile, essendo anch’egli attorniato da sei irreali paggi meccanici. E quando, al termine, il lieto fine avrà arriso ai nostri due amanti protagonisti, il comparire della medesima chiave da ricarica sulla schiena dei cattivi, perdonati dalla “bontà in trionfo” (come recita il sottotitolo dell’Opera) di Angelina/Cenerentola, sembra ‘condannarli’ non ad un’esistenza vacua, vuota, finta, bensì ad una vita di spietata fantasia, ‘vittime’ del loro stesso tentativo di negare la possibilità dell’avverarsi del sogno.
È, invero, tutto l’allestimento scenico della Fondazione Teatro dell’Opera di Roma a risultare un perfetto meccanismo teatrale, a partire dalla essenziale quanto monumentale scenografia di Carmine Maringola, con un’enorme parete bianca a far da sfondo su cui si aprono delle finestre/portali di camere segrete da cui appaiono i vari personaggi, e dai coloratissimi quanto affascinanti costumi di Vanessa Sannino (ripresi da Concetta Nappi), che attingono a piene mani dall’ipnotico, disturbante e surreale mondo immaginario di Ray Cesar e del suo ‘pop surrealismo’, che impongono all’Opera un effetto straniante, psichedelico, caleidoscopico, cui concorrono pregevolmente le incantevoli luci di Cristian Zucaro e le opportune coreografie di Manuela Lo Sicco.
Sul piano musicale, invece, non tutto è apparso ugualmente compiuto. Il Maestro Francesco Quattrocchi, pur potendo contare sull’Orchestra del Teatro Petruzzelli, che ha nel suo codice genetico quella leggerezza di suono adatta a rendere la musica di Rossini, riesce raramente a cogliere lo spirito del Genio pesarese, che rimane idealmente in buca d’orchestra e arriva raramente in platea, appesantendo la pagina musicale e, infine, smarrendo la via della freschezza e della spontaneità, mentre, tra le note positive della direzione, va sottolineato il felice accompagnamento delle voci, innanzitutto del sempre ottimo Coro del nostro Politeama, che gode della preparazione del Maestro Fabrizio Cassi, e del cast davvero di ottimo livello. Chiara Amarù è una splendida Angelina/Cenerentola e sa dosare la straripante comicità del personaggio con toni melanconici (i suoi “Una volta c’era un Re” e “Signore, una parola” commuovono), possedendo una ragguardevole estensione vocale, ma soprattutto un timbro duttile, ben malleabile, che sa mantenere corposo nei bassi e luminoso negli acuti, denotando un non comune virtuosismo ed un notevole gusto per le fioriture, svettando per precisione, gradevolezza e sensibilità. Il Principe Don Ramiro di Pavel Kolgatin è ottimo: voce squillante e limpida, capace di ergersi in acuto pur mantenendo un colore uniforme, fraseggio morbido, naturalissimo, elegante ed impeccabile, phisique du rôle, che non guasta mai, ed una convincente interpretazione teatrale, impacciata o altera al bisogno, ne fanno uno dei punti di forza della messa in scena. Più che pregevole anche il Dandini di Christian Senn, forte di una voce pastosa, brunita e multiforme, ma anche di innegabili doti attoriali e comiche, al pari del Don Magnifico di Pablo Ruiz e delle sorellastre Clorinda e Tisbe, rispettivamente Michela Guarrera ed Antonella Colaianni, tutti capaci di interpretazioni carismatiche, energiche e deliziose, seppur fortemente buffe, per dizione, precisione e fluidità d’esecuzione, vocalmente e nella recitazione, con un definito recitativo e una dizione controllatissima, come da sottolineare è anche la centrata performance di Davide Giangregorio nei panni di Alidoro, che dona al suo personaggio la profondità e l’omogeneità richieste. Al termine, la prova appare comunque di alto livello e gli scroscianti applausi del pubblico assiepato in ogni ordine di posto ne determinano il meritato trionfo.
Pasquale Attolico
Foto: Clarissa Lapolla photography