“Pace t’imploro.
Pace.
Pace.
Pace!”
(Amneris)
“Ohimè,
di guerra fremere l’atroce grido io sento:
per l’infelice patria,
per me,
per voi,
pavento.”
(Aida)
L’amore ai tempi della guerra.
La passione ai tempi della guerra.
La guerra ai tempi della guerra.
Quando la Fondazione Teatro Petruzzelli annunciò una nuova produzione e nuovo allestimento della Aida di Giuseppe Verdi, di certo nessuno avrebbe potuto ipotizzare di poter ritrovare nella finzione scenica il richiamo agli attuali tragici eventi con cui siamo costretti a convivere, alla quotidiana drammatica contemporaneità delle truppe russe lanciate all’assedio della popolazione ucraina. Eppure, quando la principessa etiope e la regina egizia hanno pronunciato le due invocazioni riportate in apertura d’articolo, entrambe gravide di greve dolore, non credo ci sia stata una sola anima pulsante tra il pubblico che affollava il nostro Politeama (praticamente sold out in tutte le tante repliche) che non ne abbia condiviso l’acuto dolore, l’agghiacciante sofferenza, l’asfissiante angoscia: è la realtà, con le sue laceranti inquietudini, ad irrompere nella rappresentazione e le grida che si levano da Bari diventano un’unica preghiera, attuale, improcrastinabile, totalizzante, universale.
Del resto, l’Opera ha già incontrovertibilmente in sé un’innata inclinazione a generare valori e messaggi che l’ascoltatore contingente non ha alcuna difficoltà a diluire, confondere ed applicare ai propri tempi, sviluppandone un’idea fortemente e tragicamente ‘politica’, proprio come fece lo stesso Genio di Busseto, il quale, colpito dalla realtà dei giorni – anch’essi terribili – che viveva, abbracciò quella tipica storia d’amore contrastato su cui si fondava il libretto di Antonio Ghislanzoni, costruito su soggetto originale dell’egittologo francese Auguste Mariette, vedendolo come il naturale proseguimento della sua incessante ricerca nel creare un perfetto equilibrio tra monumentalità ed introspezione psicologica, naturalmente supportato da un nuovo linguaggio musicale che fondesse tradizione e rinnovamento.
La storia è nota: Aida, principessa etiope, è fatta schiava e portata in Egitto, ove, tenendo nascosta la sua vera identità, diviene l’ancella preferita della figlia del Faraone, Amneris, promessa sposa del comandante delle truppe egiziane Radamès, trionfatore della battaglia in cui viene fatto schiavo anche lo stesso re d’Etiopia. L’amore, invece, a dispetto della passione e della gelosia di Amneris, è sbocciato tra Aida e Radamès, ma quando i due sono sul punto di fuggire per vivere il loro sogno d’amore in nuove incontaminate terre, il padre di Aida la convincerà a farsi rivelare dal comandante il passaggio dell’esercito egiziano che muove contro gli etiopi. Scoperto, Radamès si lascia condannare, nonostante le suppliche che Amneris, ancora innamorata, rivolge ai sacerdoti, ad essere sepolto vivo, peraltro credendo Aida salva, mentre la giovane principessa etiope si è nascosta nella cella del condottiero, così da andare con lui incontro a morte certa e, forse, a quella nuova vita che avevano sempre anelato.
Verdi, servendosi della strenua opposizione dei suoi personaggi alle ragioni del potere e del fato e della loro irrimediabile sconfitta, riuscì miracolosamente – e consapevolmente – a dipanare questo groviglio di passioni e di conflitti con estrema lucidità musicale, scoprendo inattesi e sino ad allora inesplorati punti di contatto tra slanci collettivi e tumulti individuali, colpi di scena della storia e svolte tragiche nel destino dei protagonisti, al punto da sbilanciarsi così all’indomani della rappresentazione scaligera dell’8 febbraio 1872, dopo il debutto al Cairo nel dicembre 1871: “Ieri sera Aida benissimo. Buona messa in scena: scene sublimi; buona orchestra; buonissimi cori: compagnia di canto eccellente. Infine, vero successo. Amen dunque. In quanto alla musica, il pubblico le ha fatto buon viso. Non voglio con te affettare modestia e certamente questa è fra le mie delle meno cattive. Il tempo poi le darà il posto che le conviene.”
La monumentale ‘N’ che fa bella mostra di sé sul sipario chiuso che accoglie il pubblico all’ingresso del Teatro Petruzzelli, rimandando immediatamente alla vittoriosa Campagna d’Egitto dell’Armata d’Oriente francese guidata dal generale Napoleone Bonaparte, appare una chiara dichiarazione d’intenti della regia della trionfale nuova messa in scena affidata a Mariano Bauduin; in realtà, la pur affascinante mise en scène di Bauduin, memore probabilmente anche della circostanza che vide la Prima, concordata per il gennaio 1871, ritardata a causa dell’impossibilità di accedere durante la guerra franco-prussiana ai laboratori dell’Opéra di Parigi dove erano stati realizzati costumi e scenografie, non spostava la collocazione temporale nel periodo tra il 1798 ed il 1801, ma operava una sontuosa, se non pomposa, – ed invero eccentrica – commistione tra l’ambientazione classica e quella – per così dire – napoleonica, quasi a suggerire quello che avrebbe potuto immaginare lo stesso Verdi durante la stesura dell’Opera, in tal modo, però, di fatto colpevolmente rinunciando all’aspetto più umano ed intimistico, a mio modesto parere il vero punto di forza del dramma verdiano.
Ne derivava che lo spettatore, complici le maestose scene di Pier Paolo Bisleri ed i sfarzosi costumi di Marianna Carbone, mentre ben più attinenti apparivano le esemplari luci di Gianni Pollini e le accattivanti coreografie di Miki Matsuse van Oecke, risultasse infine assalito da decine e decine di riferimenti e rimandi più o meno appropriati, taluni preziosi ed incantevoli, talaltri eccessivi e davvero troppo forzati; tra i primi, senza dubbio, le splendide stampe e le mappe belliche che facevano da sfondo alle scene, nonchè l’apparizione in due palchi durante la ‘Marcia trionfale’ di ben sei trombe simili a quelle egiziane o alle buccine romane, perfette (o quasi) riproduzioni di quelle utilizzate nella Prima del Cairo dal Maestro, mentre nel secondo – ingombrato ed ingombrante – gruppo andavano certamente annoverati i costumi di Amneris, improbabile clone di Giuseppina Bonaparte, le onnipresenti statue del Canova, con – naturalmente – particolare risalto all’effigie di Paolina Bonaparte, e finanche la vivisezione di un coccodrillo, plausibilmente un richiamo alla valenza scientifica che Napoleone intravide nella spedizione egizia. L’immenso successo – di cui si è detto – dell’operazione lascia però intendere che la lettura del regista non è stata affatto sgradita al popolo della lirica, anzi, e, dunque, non si può che plaudirle, non fosse altro che per vedere il Petruzzelli ogni sera affollato in ogni ordine di posto.
Discorso completamente diverso merita l’interpretazione musicale, a partire dalla direzione del Maestro Renato Palumbo, che riesce a cogliere tutte le sfumature nascoste nell’insidiosa partitura del capolavoro verdiano, dall’aspetto intimistico, racchiuso nella solitudine dei personaggi, a quello trionfalistico, da molti – erroneamente – ritenuto egemonizzante. Palumbo, al contrario, dimostra di aver pienamente metabolizzato l’Opera, soprattutto prestando una particolare attenzione ai piani e ai pianissimi, ai crescendo e ai diminuendo che Verdi ha disseminato sul pentagramma, scegliendo sempre in modo appropriato i tempi più adeguati a sostenere la visione d’insieme e la coerenza drammatica dell’intera esecuzione, mai dimentico delle ovvie necessità dei cantanti, così da permettere ad ogni spettatore di sentire – anche intimamente – ogni sussurro, ogni sussulto, ogni impeto ed ogni passione dei protagonisti. Seguendo il suo inimitabile gesto suadente, l’Orchestra del Teatro Petruzzelli ha offerto un’altra prova maiuscola, di grande coesione ed omogeneità, facendo sortire dalla buca un suono che non poteva non attirare l’attenzione – nonostante tutto quello che si agitava sul palco – e lasciare positivamente esterrefatti, curato e cesellato da ogni esecutore in ogni frangente, qualità che vanno tutte condivise con il Coro del Petruzzelli, egregiamente preparato da Fabrizio Cassi, che denota un equilibrio che va spesso oltre la perfezione, emozionando ad ogni suo intervento, anche quelli fuori palco, dimostrando di essere capace di particolari dinamici ed espressivi e di conoscere la pagina verdiana a fondo, serbandone gelosamente ogni segreto, frase per frase, battuta per battuta, palpito per palpito.
Leah Crocetto è un’Aida dall’ampissimo spessore vocale, che ha dalla sua una potenza ed un’ampiezza vocale, particolarmente sui registri acuti, davvero sorprendente, ma anche un’esecuzione ricca di sfumature, espressiva in ogni sfaccettatura del suo personaggio. Non le è da meno l’Amneris di Carmen Topciu, che, grazie alla avvolgente limpidezza del suo timbro e ad una interpretazione che ha dell’incredibile, magistrale anche dal punto di vista attoriale, cattura il pubblico gradatamente sino a prendere il sopravvento e – di fatto – il totale controllo della pièce nei due atti conclusivi, anche per l’evoluzione della linea di canto e della psicologia del suo personaggio. A chiudere il trio delle meraviglie, Roberto Aronica dona al suo Radamès una innegabile spiccata potenza espressiva, dalla vocalità solida, genuina e generosa, ma anche il richiesto physique du rôle ed una rappresentazione suggestiva ed ammaliante, attenta ai segni dinamici ed espressivi della sua parte. Completano il cast l’ottimo Amonasro di Vladimir Stoyanov, dal timbro scuro, perentorio, autorevole e sicuro soprattutto nello splendido duetto con Aida del terzo atto, l’eccellente quanto solido Ramfis di Abramo Rosalen, il Faraone di Romano Dal Zovo, la Sacerdotessa di Nikolina Janeska ed il Messaggero di Saverio Fiore, di certo tutti uniti nel finale all’osannante platea nel richiamo di Verdi contro ogni popolo oppressore, in quell’anelito di pace che, ora come allora, dovrebbe accomunare ogni essere umano.
Pasquale Attolico
Foto Clarissa Lapolla photography
per gentile concessione della Fondazione Teatro Petruzzelli