“Chi è quella fanciulla che arricchisce del suo tocco la mano di quel cavaliere? Oh, ch’ella insegna davvero alle torce a splendere di viva luce! (…) Come sia finita la danza, vorrò osservare dov’ella si ritragga e, toccando la sua, benedirò di felicità la mia mano rude. Il mio cuore ha forse mai amato, fino a oggi? Sbugiardalo, oh vista, perché non ha mai veduto, prima di stanotte, la vera bellezza.” (da “Romeo + Giulietta”)
Il balletto classico, si sa, il più delle volte appare ostico a noi comuni mortali, spesso incapaci di comprendere appieno cosa accade sul palcoscenico, di dare un significato alle traiettorie indefinibili che quei corpi – per lo più perfetti – disegnano nell’area, ai simboli, ai messaggi criptati che crediamo appartenere ad una civiltà diversa dalla povera nostra. A questa legge, peraltro non scritta, la coreografia “Romeo e Giulietta” di Jean-Christophe Maillot sfugge inesorabilmente, se dobbiamo credere ai nostri occhi e all’infinita ovazione che una platea sold out ha decretato all’inaugurazione della Stagione di danza 2022 della Fondazione del Teatro Petruzzelli, affidata a questa magnifica produzione della mitica Compagnia de Les Ballets de Monte-Carlo, di cui Maillot è direttore artistico dal 1993.
Il geniale coreografo francese ha saputo dare una superba nuova veste al capolavoro di William Shakespeare, donandogli un aspetto visivo distintivo e fortemente espressivo, ricco di scoperte creative ed efficaci, concentrando la sua attenzione più su piccoli gruppi di ballerini che sulla totalità del corpo di ballo; considerata, a ragione, una pietra miliare del balletto neoclassico e contemporaneo, l’opera di Maillot, pur conservandone le linee aggraziate ed i movimenti limpidi, particolarmente sottolineati dagli eleganti costumi di Jérôme Kaplan, si allontana dalla danza classica tradizionale quanto basta a riscriverne i codici, a mescolarne le carte, richiamando anche la tecnica cinematografica dello slow motion in molteplici momenti della pièce. In realtà, l’omaggio alla settima Arte è sempre presente, come annunciato già dai titoli di testa, finanche, a mio modesto parere, a partire dalla stessa monumentale scenografia di Ernest Pignon-Ernest, splendidamente illuminata da Dominique Drillot, che sopperisce all’assenza di oggetti di scena con una rampa centrale, mobile in verticale, ed alcuni schermi bianchi, mobili in orizzontale, che diventano, sì, le mura di Verona stilizzate, ma anche una gigantesca moviola, la vecchia macchina per il montaggio cinematografico ormai in disuso, forse partorita dalla mente tormentata di quel Frate Lorenzo che vorrebbe riavvolgere il nastro della vicenda dei Montecchi e dei Capuleti per modificarne i momenti salienti ed, in particolare, il finale.
È proprio il frate la chiave di volta ed il vero protagonista della lettura mailottiana, perché tutto quel che si agita sul palco altro non è che quel che lui (ri)vede, condannato, come in un girone dantesco, a rivivere in flashback la storia dei due giovanissimi amanti, prostrato da una disperazione straziante che viene perfettamente rappresentata sin dal preambolo, cosciente, infine, del definitivo naufragio del suo nobile quanto irrazionale intento di riconciliare le due nobili famiglie facendo convolare a nozze i due rampolli.
Questa innovativa concezione della storia, pur utilizzando al meglio la ricchezza della musica multistrato che Sergej Prokof’ev creò per Leonid Lavrovsky nella Russia sovietica, con tutta probabilità la più utilizzata nelle produzioni di danza della storia, ne riconfigura i margini, risultando infedele alla partitura originale per disporne le pagine a suo piacimento su un diverso insieme di eventi, eppure magicamente ed insperabilmente in sintonia nel prodotto finale, al punto da non far rimpiangere la coreografia classica tradizionalmente eseguita, sovvertendone i tratti più accademici in più di un’occasione, come in quel ricordato ripetuto affascinante impiego del rallentamento dell’azione nei momenti salienti del dramma, utilizzando questi artifici per dare spessore e pathos ad una rappresentazione che rinuncia alle scene di duello, non essendoci – proprio in ossequio al gioco dell’adolescenza – mai una vera arma in scena: Mercuzio morirà per un accidentale colpo di bastone e Tebaldo verrà strangolato da Romeo, mentre per inscenare la morte di Giulietta si ricorrerà al simbolismo di un tulle rosso, creatosi dai rivoli di sangue di Romeo, da cui la povera giovine si farà ammantare sino a soffocare, epilogo di epica poetica che, pur discostandosene nei mezzi, rappresenta pienamente quella “follia tranquilla, fiele soffocante e tenerezza consolatoria” richiesta dal Bardo per i suoi due amanti.
Dalla sempre magistrale performance del magnifico Corpo di ballo, spiccano le identità peculiari dei protagonisti: se trascinante ed irresistibile è la imberbe verve consegnata da Francesco Resch al suo Romeo, appare comunque ben proporzionata alla splendida quanto eterea grazia della Giulietta di Katrin Schrader, entrambi icone di un amore prima anelato, cercato, sfiorato, poi attraversato, catturato, vissuto, perfetti nei pas de deux, siano essi fuggenti e timidi ovvero pieni ed appaganti; Jaat Benoot ha dato a Frate Lorenzo un’immagine tormentata ed elegiaca, ben coadiuvato da Cristian Oliveri e Christian Tworzyanski nel ruolo degli accoliti; Jaeyong An era un Tebaldo altero, vanitoso, rissoso ed odioso, tanto da risultare il giusto bersaglio degli scherzi del Mercuzio di Michael Grunecker e del Benvolio di Adam Reist, che conquistavano per la loro vivace e luminosa gioventù; Taisha Barton-Rowledge era perfetta nel ruolo della ilare e divertente Nutrice, a cui faceva da contraltare l’imponente e nobile compostezza, soprattutto nell’estremo dolore del rito funebre, di Marianna Barabas nel ruolo di Madonna Capuleti.
Jean-Christophe Maillot con il suo “Romeo e Giulietta” ha costruito indiscutibilmente un capolavoro, una coreografia che, pur essendo ancor giovane con le sue venticinque stagioni, sfida già i secoli, forte di un inedito incantevole modo di intendere l’arte tersicorea: una più che degna apertura per l’annuale Stagione del Teatro Petruzzelli.
Pasquale Attolico
Foto di Clarissa Lapolla photography
per gentile concessione della Fondazione Teatro Petruzzelli