Umberto Orsini e Franco Branciaroli interpretano “Pour un oui ou pour un non” di Nathalie Sarraute con la regia di Pier Luigi Pizzi, realizzando una prova d’attore mai al di sotto della perfezione

La poesia rende visibile l’invisibile.” (Nathalie Sarraute)

E ognuno lascia un segno nelle persone più sensibili, e il fiume cambia il legno mentre lo trasporta via: oh, quanti giorni, quante conclusioni e recriminazioni, all’insaputa di chi dimentica che c’è un niente che modifica il presente e in un’anima cosciente provoca i guai.” (Enrico Ruggeri – Mimmo Locasciulli)

Nathalie Sarraute, la scrittrice nata in Russia ma ben presto trasferitasi a Parigi, città eletta a sua residenza sino a quando è venuta a mancare in prossimità dello spirare del secolo scorso, può a ragione definirsi una delle menti più geniali della letteratura francese e mondiale, indiscussa promotrice, se non creatrice, di quel gioco letterario – e della corrente poetica che ne scaturì – definito “tropismo”, termine mutuato dal linguaggio scientifico dove sta a significare “il movimento orientato di un organismo, animale o vegetale, o di una sua parte, determinato dall’azione di uno stimolo esterno (luce, temperatura, umidità, gravità, fattori chimici, ecc.)”.

Trasponendo la sua indagine sull’uomo, la Sarraute si propose di scandagliare i fondali più oscuri e reconditi della psiche, utilizzando, soprattutto quando scriveva per il teatro, dialoghi misurati e scene minimali, in cui ogni gesto, ogni parola, ogni silenzio persino, erano manifestazione della coscienza, di sentimenti e di pensieri che si crede aver visibilmente e chiaramente definito all’esterno, salvo poi scoprire che, per il resto del mondo, quelle stesse esternazioni resteranno per sempre ineffabili, incomunicabili, inesprimibili, inspiegabili. La letteratura en ralenti della Sarraute riusciva, forse come nessuno prima e dopo di lei, a fotografare i personaggi descritti andando ben oltre il mero ritratto, cogliendone, fosse anche solo in un attimo fuggente di vita, ogni scissione interiore, ogni soffocato anelito alla distinzione, ogni desiderio di affermazione che, infine, verrà miserevolmente frenato, accantonato, tradito; all’autrice non interessava far sortire dalla fredda carta degli eroi, dei protagonisti, delle figure che fossero emblematiche e rappresentative, portatori di istanze particolari o testimoni del loro tempo, quanto, semmai, creare delle ipotesi, formule, concetti, idee di un’umanità di anonimi, affamati di una unicità cui non possono ambire, essendone da troppo tempo a digiuno, ed in cui il pubblico non potesse identificarsi, finanche giungendo a rendere impossibile rintracciarne il nome tra le pagine e le righe, ma che, comunque, producessero nel lettore/spettatore un palpabile stato di perturbamento che non lasciasse indifferenti e che obbligasse ognuno ad una inedita – e talvolta indesiderata – personalissima indagine conoscitiva. E se lo scambio dialogico era necessario affinché un incessante desiderio relazionale conducesse ad un’emersione di quel linguaggio che “partorisce dolcemente o con il forcipe e, poi, appena nato, finisce di espellersi, si dibatte, si riversa, si dispiega, si moltiplica, s’inventa compagni indispensabili, creature con la sua stessa immagine che accarezza, morde e poi abbandona”, era inevitabile che la scrittrice eleggesse il teatro a luogo principe per l’estrinsecazione dei suoi tropismi.

Pour un oui ou pour un non, del 1982, non è solo l’ultima creazione per il palcoscenico – in realtà nata per una trasmissione radiofonica – della Sarraute, ma anche, con tutta probabilità, la più ardita metafisicamente, quella che, prestandosi maggiormente a letture mimetiche, cessa quasi totalmente di essere colloquio parlato, conversazione esplicita, per divenire preda di una infinità di significati sottintesi, tralasciati, sottaciuti, se non omessi, un magma vulcanico di sensazioni in sotterranea deflagrante implodente eruzione, che sembra sempre sfociare in una parola detta, salvo poi tornare ad inabissarsi nelle profondità dell’interiorità.

La trama è presto detta. Due vecchi amici: l’uno va a trovare l’altro per comprendere cosa lo abbia portato ad allontanarsi non dando più segno di sé, per scoprire poi di essere stato inconsapevolmente accusato di offensiva degnazione, di atteggiamenti falsamente condiscendenti, dall’alto di una presunta superiorità che, però, non avrebbe mai apertamente manifestato; l’accusato, a sua volta, sviscera il sospetto che l’altro fosse perennemente in preda ad un sentimento di gelosia che lo spingesse ad attribuire significati irreali alle lamentate piccole mancanze. In definitiva, non ci sono stati eventi eclatanti, nessuno scontro, offese o inganni, ma, piuttosto, intonazioni, accenti, sguardi, pause che hanno acceso un fuoco, autoalimentatosi al vento del tempo e della solitudine sino ad offuscare ed incendiare una mente credutasi offesa, ferita, umiliata. In questo contesto, i protagonisti dell’intrinseco conflitto vedono crescere la vicendevole incomprensione ed esponenzialmente acuirsi la tensione espressiva del movimento sotterraneo, ora negata ora confessata, ora sardonica ora austera, ora accettata ora avversata, delineando un infinito gioco al massacro, che apparirà irrisolvibile se non nella riconciliazione, vera o finta che sia, ovvero nell’annullamento, nella demolizione, nell’annichilimento dell’altro.

Una sostanziale parte del successo della produzione della Compagnia Orsini / Teatro de Gli Incamminati, in collaborazione con Centro Teatrale Bresciano,in cartellone al Teatro Piccinni di Bari per la Stagione teatrale del Comune di Bari e del Teatro Pubblico Pugliese, deve essere senza dubbio attribuita alla regia di Pier Luigi Pizzi, qui al suo ritorno alla prosa dopo tante opere liriche, tanto asciutta quanto essenziale, risolta e definita, geniale nello sposare perfettamente le dichiarazioni d’intenti della Sarraute, lasciando che affiorino “i tenui movimenti interiori, morbidi dispiegamenti, vaghi sciami, piccoli drammi che si sviluppano secondo un certo ritmo, un meccanismo meticolosamente organizzato dove tutti gli ingranaggi si incastrano” e di cui “il dialogo, volutamente banale, apparentemente innocuo, è l’affioramento”. Per riportare sulla scena questa urgenza dicotomica, Pizzi utilizza espedienti che tendono ad amplificare la forza delle proposizioni dei duellanti dialettici, come il relegarli – salvo qualche raro momento – in una solitudine fisica e spaziale, in un ristretto spazio ritmico, con pochi e ripetuti gesti scenografici semplici e concreti, ma anche e soprattutto a non dare alcun punto di riferimento inequivocabile, alcuna possibilità di soluzione della vicenda; infatti, se, quando il sipario si alza, uno dei due protagonisti, quello che vive in totale solitudine, è dormiente sul suo divano e l’altro accede all’appartamento – nella splendida rappresentazione che ne danno le scenografie dello stesso regista – senza problemi, si può anche ben supporre che tutto quello che vedremo nei sessanta (o poco più) magnifici minuti di rappresentazione, sino al tragico finale, sia dovuto solo alla fantasia del primo, lettura che porterebbe l’emersione tropistica alla sua massima rappresentazione, creata dall’estrinsecazione del conflitto intrinseco di un solo personaggio.

Il resto, tutto il resto, della riuscita dell’operazione si deve – ça va sans dire – ai due monumentali protagonisti della pièce. Anni fa – invero un bel po’ di anni fa – ebbi la fortuna di assistere a “Besucher”, la monumentale opera teatrale che la geniale mente di Luca Ronconi aveva estratto dal testo di Botho Strauss; in quell’occasione, tra le altre cose, fui oltremodo conquistato dalla ‘sfida’ tra due mostri sacri dell’Arte attoriale come Umberto Orsini e Franco Branciaroli; oggi quella nobile tenzone si propone nuovamente, intonsa, magnifica, superba, mai al di sotto della perfezione, donandoci una imprescindibile prova di Teatro di infinita bellezza, perfettamente rappresentando le illimitate sfaccettature psicologiche dei personaggi da cui si e ci lasciano attraversare, avvincere, ricoprire, attanagliare, vittime di una forza invisibile eppur incessante, quasi fossero condannati a ripetere – e ripetersi – in eterno i loro insondabili quesiti, da cui sembra per lo più affiorare il significante e non il significato.

Lacerato il telo del sipario e squarciato il velo ipocrita che divide e distingue il palco dalla platea, Orsini e Branciaroli, dall’alto della consapevolezza della loro irraggiungibile padronanza tecnica, riescono a far progressivamente dimenticare il “lavoro” dell’attore, il trucco, l’artificio, lo stratagemma, sino a che il pubblico non è davvero convinto che quelli che si agitano sul palco sono i veri protagonisti della vicenda, entità staccatesi dal testo che hanno deciso di mostrarsi totalmente nude a se stesse e agli altri. La loro performance, permettendoci di accedere nell’intimo dei due personaggi lì dove l’uno distrugge l’altro, ci regala un’altra opera totale, necessaria, pregna di innumerevoli input, cibo per la mente ed acqua per l’anima, flash sparati negli occhi assonnati di un pubblico che non può non restarne abbagliato, affascinato, ipnotizzato, sia che ci si fermi alla semplice visione ed all’elementare ascolto, sia che si scelga di andare oltre, di partecipare con trasporto a questa discesa negli inferi dello spirito, grazie ai due sublimi testimoni di una recitazione che non conosce pari, assoluti nel, come direbbe la stessa Sarraute, “raccontare l’incorreggibile angoscia, il favoloso, il ridicolo tumulto, l’infinito brulicare dei nostri precedenti pensieri, quando da un minuscolo tremito, sotto o sopra, dentro o fuori, si girano, si involgono, si aprono sul fondo di essi, come pistilli di fiori carnivori sorpresi dalla luce.

Pasquale Attolico

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