“Poiché in vita mia non ho mai gustato la vera felicità dell’amore, voglio erigere al più bello dei miei sogni un monumento nel quale dal principio alla fine sfogherò appieno questo amore. Ho sbozzato nella mia testa un Tristano e Isotta; un concetto musicale della massima semplicità, ma puro sangue; col bruno vessillo che sventola in fine del dramma, voglio avvolgermi per morire!” (Richard Wagner a Franz Liszt – dicembre 1854)
Ci sono situazioni in cui il tempo non deve, non può contare, né i minuti essere contati, ma occorre lasciare che questi si allineino a formare ore senza che vi sia la benché minima preoccupazione del loro trascorrere; certo, non è richiesta che si possa facilmente esaudire nel frenetico ritmo di vita che ci siamo imposti, anche, e forse soprattutto, in questo tempo sospeso che ancora ci attanaglia, ed è per questo motivo che ci sentiamo di fare immediatamente i nostri complimenti al coraggio della Fondazione del Teatro Petruzzelli che ha inaugurato la Stagione Lirica 2022 con l’Opera, assente da decenni su quel palcoscenico, più lunga, sconvolgente e destabilizzante che sia mai stata composta, coniata nel crogiuolo della tragedia classica e della melodia romantica eppure talmente proiettata nel futuro da essere il caposaldo di tutta la musica moderna.
Tristan und Isolde è indubbiamente il sogno rivoluzionario di Richard Wagner, la rappresentazione di una concezione filosofica del mondo, l’ispirato quanto illusorio anelito alla vita e all’amore di chi ha già abbandonato la volontà di vivere avendone sperimentato l’innata tragedia, un’elaborazione concettuale che il compositore ritrovò in un poema del XIII secolo che il poeta tedesco Gottfried von Strassburg aveva, a sua volta, tratto da un’antica leggenda di origine celtica, scorgendovi il contesto ideale perché la musica riuscisse finalmente a rappresentare in modo inequivocabile l’eruzione dagli abissi dell’inconscio dei sentimenti più insondabili attraverso una ‘azione’(‘handlung’, come scrisse lo stesso Wagner in cima alla partitura) dal movimento incessante e potente che giungesse sino al disfarsi del dramma nell’estasi ideale del dono: quando, nel finale, il motivo del desiderio, lo stesso con cui aveva avuto inizio l’Opera, fa risuonare il suo arioso cromatismo sciogliendosi in un’armonia perfetta, la dichiarazione d’intenti sembra completamente risolta, definitiva, nel compiersi pienamente del dettato wagneriano per cui “la musica non esprime la passione, l’amore, la nostalgia di questo o quell’individuo in questa o quella situazione, ma la passione, l’amore, la nostalgia stessa. La musica è la lingua della passione”. Forse mai come questa volta, il Maestro è riuscito ad indagare l’animo umano fin nelle profondità più oscure, conflittuali, irragionevoli, toccando le corde più intime e segrete del nostro animo, che, inconsciamente, si lascia sedurre da quella melodia unica ed inedita, spesso ingannevolmente sottesa al testo, senza opporre resistenza, ritrovandosi in quel non luogo in cui, come disse Friedrich Nietzsche, “causa ed effetto sembrano privi di connessione e, in qualsiasi momento, qualcosa può sorgere dal nulla”.
Nata come opera di “dimensioni ridotte ed assolutamente adatta ai tempi” che gli permettesse “una buona e pronta rendita” mentre continuava a lavorare alla monumentale “Götterdämmerung”, il lavoro, a seguito della lettura de “Il mondo come volontà e rappresentazione” di Arthur Schopenhauer, in cui l’amore veniva presentato come un escamotage al fine di perpetuare la specie, una semplice sovrastruttura della soddisfazione del desiderio sessuale, mutò radicalmente, non senza una certa preoccupazione da parte del suo creatore. “Questo Tristano diventa qualcosa di terribile e solo delle rappresentazioni mediocri potrebbero salvarmi! Se fossero perfette, potrebbero far impazzire gli spettatori; non riesco a immaginare altro”, annunciava Wagner, anticipando la psicologicamente impegnativa e, talvolta, insostenibile tensione che si sarebbe percepita in questo suo viaggio nel lato oscuro della coscienza, di fatto cristallizzata in quel secondo atto che individua la notte come luogo delle verità in opposizione alla ragione ingannevole del giorno; ed è proprio in questa serie di opposizioni tra azioni esteriori ed eventi interiori che il compositore si muove, riducendo enormemente le prime, pregne di eventi tangibili quanto illusori quali regole sociali, moralità ed onore, sino a farle quasi scomparire per esaltare il dramma interiore come peculiare evento autentico a cui far corrispondere un’unica inesauribile trama musicale che materializzi “un desiderio inestinguibile, una brama che si rigenera eternamente”.
L’impegnativa nuova produzione e nuovo allestimento della Fondazione del Teatro Petruzzelli ha colto pienamente questo spirito, grazie alla regia di Yannis Kokkos, ideatore anche delle splendide scene, che da sole valgono la visione dell’intera pièce, e dei costumi, che trasportano l’azione in un tempo astratto ed indefinito, forse un immaginato ritorno al futuro dell’originale collocazione medievale, in perfetta sintonia con l’affascinante disegno luci di Vinicio Cheli e, soprattutto, con gli ipnotici video di Eric Duranteau che, dopo aver ‘movimentato’ il sipario chiuso, agitano incessantemente il fondale del palcoscenico; potendo contare su questi davvero strabilianti fattori scenici di assoluto richiamo, Kokkos sceglieva di abbandonare i suoi personaggi ad una gestualità minimalista, avara, essenziale, anche – è dato supporre – nel tentativo di far risaltare le splendide quanto recondite armonie nascoste nel pentagramma, impresa titanica affrontata e vinta dalla direzione del Maestro Marc Piollet ed alla prova, come sempre maiuscola nonostante le infinite difficoltà a causa del virus, dell’Orchestra – in più di un frangente davvero sublime – e del Coro del Teatro Petruzzelli, quest’ultimo, preparato sempre mirabilmente da Fabrizio Cassi, apparso molto incisivo nelle pur esigue parti concesse dalla partitura.
Ebbene, Piollet, votandosi ad un registro più intimo e lirico, quasi si fosse in perenne sommessa attesa, convinceva il pubblico che affollava il Politeama con una lettura che sembrava rifiutare le sonorità eccessive e l’enfasi interpretativa spesso accostata all’opera wagneriana, virando verso accenti più intimi e dolorosi, operazione che sarebbe perfettamente riuscita se non si fosse incappati in una serata indubbiamente opaca di Lars Cleveman, raramente vigoroso ed incisivo nel ruolo di Tristan, ed in particolare di Alexandra Lubchansky, una Isolde apparsa sempre affaticata, andata via via spegnendosi, proprio nei momenti in cui la pagina musicale impone una prestazione da antologia, tanto da confermare infine certe problematicità nello spessore vocale già notate nei primi due atti, entrambi, probabilmente, trovatisi impreparati al passaggio dal cast secondario a quello principale.
Appariva, al contrario, strepitosa e trascinante l’interpretazione di Brangäne affidata a Stefanie Iranyi, voce dal timbro sicuro, elegante, bellissimo, che donava agli intimi accenti della dolente compagna di Isolde una intensa sensualità dolorosa fortemente partecipativa e sinergica, quella di Re Marke che grazie al canto esemplare ed al nobilissimo tratteggio dell’ottimo Rafal Siwek coloravano la performance di accesa drammaticità e vibrante spessore, e quella del Kurwenal di Oliver Zwarg, talvolta così convincente da essere finanche capace di strappare le luci della ribalta al protagonista, cui si aggiungevano Simon Schnorr (Melot), Italo Proferisce (un timoniere) ed Andrea Schifaudo (voce di marinaio; un pastore), sugellando una inaugurazione di Stagione davvero da incorniciare per la Fondazione Petruzzelli.
Pasquale Attolico
foto Clarissa Lapolla photography
su gentile concessione della Fondazione Petruzzelli