“Quando fai un one man show – mi ha detto un giorno Giorgio Gaber – per vincere devi portare in scena le tue sfighe, le cose belle e le cose brutte. E aveva ragione. È la realtà immaginata quella che ci rende più felici.Ho ricevuto la mail di una donna trentenne che mi ringraziava perché ha visto la mamma, molto malata, uscire dallo spettacolo divertita: “Non credevo a un effetto così magico”, ha scritto. Questo per me è meraviglioso.” (Arturo Brachetti)
La gioia. Quella pura, incondizionata, completa, assoluta.
La gioia di rivedere una sala come quella del Teatroteam di Bari talmente straripante da poter credere, se non fosse per le mascherine sul volto di tutti gli spettatori ed i giustamente rigorosi controlli all’ingresso, di essere tornati indietro nel tempo a qualche anno fa, ad un’epoca precedente a quella che ci viene oggi imposta dal maledetto virus che sta cercando in tutti i modi di rubarci pezzi di vita.
La gioia di incrociare, in quella folla festosa, il volto, gli occhi, lo sguardo rapito di tantissimi bambini, non solo in così tenera età per dettami d’anagrafe ma, anche e soprattutto, per aver conservato intonso il proprio fanciullino ed aver fatto sì che si manifestasse al mondo in una serata magica, quella che sarà ricordata come la sera in cui ci è stato concesso di entrare nella straordinaria casa di uno dei più grandi artisti al mondo, un uomo che ha fatto proprio della magia e del sogno la sua altissima cifra stilistica, il suo tratto distintivo, il suo marchio di fabbrica.
Dopo aver assistito (ma sarebbe meglio dire ‘partecipato’) al suo one man show “Solo”, appare impossibile continuare a chiedersi il motivo per cui Arturo Brachetti sia universalmente riconosciuto come il più grande nel suo genere (è Commendatore dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana, mentre in Francia è stato nominato Cavaliere delle Arti e del Lavoro e la sua statua di cera campeggia al Museo Grévin di Parigi), “the legend of quick-change” come recita il sottotitolo di questo spettacolo che, pur avendo radici antiche, riesce sempre a rinnovarsi e ad entusiasmare i pubblici di ogni nazione. “Casa mia è un parco giochi pieno di sorprese. Ho circa 350 costumi da tanti spettacoli che ho fatto nella mia vita e, quando vado nel deposito, me li guardo un po’ come se fosse un catalogo. Ognuno di loro rappresenta non solo quel personaggio ma anche un determinato periodo della carriera. I costumi, come gli oggetti, racchiudono un’anima. Appena si sale all’ultimo piano, dove vivo, ci si ritrova in un pianerottolo tutto di mattoni, con una luce da cantina, c’è un muro che si apre ed è la porta. Ma all’interno poi ci sono muri che si spostano, acqua luminosa, specchi che parlano, porte che si aprono al contrario, stanze da bagno come quadri di Magritte, peluche dappertutto. Tutto questo è una mia idea. Mettere su casa per me è stato come mettere in scena uno spettacolo. Da vecchietto farò questo: farò fare il tour di casa mia in venti minuti!”; ed è esattamente quello che accade nei novanta – e non venti, per nostra fortuna – minuti senza sosta e senza soluzione di continuità di questa magnifica pièce, con Arturo che ci fa da guida nella sua residenza, nelle stanze della sua vita, della sua memoria, illustrandocene ogni palpito, ogni ricordo, ogni anelito. Nel susseguirsi delle storie, si palesano personaggi che rivivono e si manifestano nel corpo del geniale trasformista, capace di cambiarsi d’abito (“ma come fa?” è la domanda più frequentemente bisbigliata dal pubblico) in meno di un secondo, un sortilegio che si materializza davanti ai nostri occhi, un incantesimo senza fine, che continua anche quando Arturo si destreggia con le ombre cinesi o con gli affascinanti ed emozionanti disegni realizzati con la sabbia, con dedica finale alla nostra città, o addirittura con i laser, nello spettacolare duello con la sua ombra, il silente Kevin Moore, sino a quel sospirato e fantastico volo finale, che, pur nell’attimo più gaio della performance, a noi ha malinconicamente riportato alla memoria il Peter Pan teatrale del compianto Manuel Frattini, protagonista assoluto di quello spettacolo, realizzato sulle musiche di Edoardo Bennato, che vedeva proprio il genio dell’artista torinese ideare le fantasmagoriche trovate sceniche.
In realtà, al mondo del personaggio fantastico creato da James Matthew Barrie, e non solo per l’espediente dell’ombra staccatasi dal suo legittimo proprietario, ci riconduce e ricongiunge Brachetti stesso, incarnandolo alla perfezione, novello “ragazzo che non voleva crescere” che, ad ogni nuovo incontro, non può fare a meno di rapire migliaia di cuori, portandoli con sé nella sua isola che non c’è, nel suo magico mondo, nella sua casa.
Pasquale Attolico
Foto dalla pagina web di Arturo Brachetti