Custodi e garanti della eredità dei De Filippo, Carolina Rosi e Gianfelice Imparato propongono una versione di “Ditegli sempre di sì” che, complice la regia di Roberto Andò, resta fortemente ancorata alla tradizione

Tu sei un pericolo per la società. La gente ha paura di te, hai capito? Gli amici, i parenti, la famiglia ti possono compatire, ma a un certo punto si rassegnano e ti abbandonano. Vattene ‘o manicomio…

Michele Murri, un pazzo considerato guarito da un medico ottimista dopo un anno di permanenza in manicomio, torna a casa da sua sorella Teresa, e qui stravolge l’apparente normalità di coloro che incontra, scardinandola e privandola dei filtri che normalmente si usano nel vivere “civile”. L’uomo, infatti, ignora l’uso della metafora e invoca il significato autentico e letterale delle parole.
La storia tratta l’abusato tema del confine labile tra sanità e follia, con un equilibrio tra comico e drammatico, ma, a differenza del modello pirandelliano, che vede il sano scambiato per folle, Michele è veramente pazzo, ma di una pazzia cortese, gentile e non immediatamente riconoscibile, che si traveste di attenzione e partecipazione alle vicende delle persone che entrano nella sua vita, salvo poi degenerare in un crescendo di alienazione che lo porta ad uscire da sé e ad usare violenza su colui che elegge suo alter ego, considerandolo un pazzo che è di disturbo e che va eliminato.

Una trama tutto sommato semplice quella di “Ditegli sempre di sì” di Eduardo De Filippo, che però sottende ad un percorso che, partendo dal registro farsesco, passa al drammatico e poi ancora al grottesco.
Una commedia dolorosa, sebbene Eduardo l’abbia inserita nella Cantata dei giorni pari; una delle prime della sua produzione.
Portata in scena per la prima volta nel ‘28 dalla Compagnia di Vincenzo Scarpetta, nel ‘32 é riproposta dalla Compagnia Umoristica I De Filippo, insieme a Titina e Peppino. Nonostante il successo legato anche alla magistrale interpretazione di Peppino, che disegna un mirabile Luigi Strada, questa “vana lusinga in due tempi” viene ben presto messa da parte da Eduardo, forse proprio per allontanare il ricordo dei meriti del fratello dopo la rottura dei loro rapporti. La commedia é riportata in scena molti anni dopo nell’adattamento televisivo del ‘62, che vede Eduardo nelle vesti di protagonista e regista e, infine, affidata da Eduardo stesso a Luca De Filippo quale protagonista nel 1982.

Custode e garante del percorso di Luca, Carolina Rosi oggi guida quella che era la sua Compagnia e sceglie come regista Roberto Andò, abituato a muoversi tra cinema e teatro, per questa riedizione prodotta da Ellediefffe e dalla Fondazione Teatro della Toscana, in scena al Teatro Piccinni di Bari per il cartellone della Stagione di Prosa 2021.2022 del Comune di Bari e del Teatro Pubblico Pugliese dal 6 al 9 gennaio.

Alla sua prima esperienza con la scrittura eduardiana, Andò asciuga il testo, pur conservando i passaggi originali, mentre la scenografia di Gianni Carluccio sottolinea con l’ambiguità degli arredi la similitudine tra ambiente domestico e ospedale, entrambi luoghi di cura ma anche di tormento.
Carolina Rosi è una Teresa smarrita e fragile di fronte alla vita e a questo fratello di cui, nonostante tutto, è pronta ad assumersi la responsabilità. Il senso di inadeguatezza davanti alle vicende vissute non le impedisce di intervenire a far luce sulle piccole follie che si snodano nelle vite degli altri personaggi, nel tentativo di riportare le storie di ognuno ad una normalità che sia verità del sé.
La personalità forte dell’attrice e la confidenza con il personaggio la rendono protagonista al pari di Gianfelice Imparato, un Michele candido ma nello stesso tempo sottilmente crudele, in un crescendo di disperazione e straniamento dalla realtà. Purtroppo Imparato paga lo scotto di vestire i panni di un Maestro che si è scritto addosso ciascuna delle parole che ha replicato sul palcoscenico, parole che hanno il ritmo del suo cuore e i silenzi del suo respiro. Difficile liberarsi dei gesti, difficile per il pubblico nostalgico non cercare la replica delle emozioni.

Robusto il tessuto degli altri attori della Compagnia di Teatro di Luca De Filippo, tra i quali spicca l’ottimo Edoardo Sorgente, carico di una energia e di un ritmo particolarmente coinvolgenti nel ruolo dell’artista incompreso e squattrinato Luigi Strada che, come detto, fu cavallo di battaglia di Peppino De Filippo sino alla separazione artistica dei tre germani, che qui diventa l’alter ego del protagonista e sul quale Michele sfoga il suo delirio folle.

Uno spettacolo solido, coerente, asciutto ma non scarno, che sicuramente raccoglie il plauso di coloro che cercano l’impronta e lo stile di Eduardo, la sua cifra stilistica.
Ci auguriamo tuttavia che, pur rispettando la grande eredità della famiglia De Filippo tutta, i custodi di questo tesoro sappiano aprirsi al futuro in una prospettiva di rinnovamento fedele alla tradizione, ma anche libera e liberante.
Al di là dell’ indubbia bellezza di questa rappresentazione, ci sia concessa una riflessione.
In cosa consiste la fedeltà ad un testo o ad un autore?
Il teatro è una sorta di rito, ma è anche molto di più. Fino a che punto chi propone Eduardo deve “fare Eduardo”?
Essere custodi della tradizione significa ripetere una liturgia precisa e non modificabile o preservare l’essenza, il pensiero ultimo?
Se il teatro di Eduardo ci sembra ancora oggi vivo, attuale; se la sua scrittura è così robusta e solida; se sentiamo che parla ancora al nostro sentire più profondo, toccando con i suoi temi le nostre corde più intime, perché non avere il coraggio di affrancarsi dai gesti (lo strabuzzamento degli occhi, il tentennare del capo) che erano propri e connaturati ad Eduardo?
Perché non lasciare che fluisca nell’epigono la grande magia, l’essenza ultima dei personaggi?
Dove ci porta questa nostalgia, questa ripetizione del rito?
E, soprattutto, tutto questo fa bene, nel tempo, al teatro di Eduardo? O non rischia forse di cristallizzarlo, per poi relegarlo ad un nostalgico balsamo per l’anima, togliendogli vita?

Imma Covino
Foto di Silvio Donà

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