“Aleksandr Sergeevič Puskin è il principio di tutti i principî.” (Fëdor Michajlovič Dostoevskij)
“Noi siamo vostri, corpo ed anima. Se veniamo battuti, è perché ce lo meritiamo. Noi siamo felici di servirti, di fare i pagliacci per divertirti nei giorni di festa, di abbaiare, di strisciare a quattro zampe e di prenderci a pugni per farti passare giorni felici e dormire un sonno placido. Che cosa ci riserva il giorno che verrà? Come faremo senza lo zar?” (Popolo / Coro – III atto – Il gallo d’oro)
Quando, nel 1905, la Rivoluzione Russa irrompe nel Conservatorio di San Pietroburgo, il professor Nikolaj Andreevič Rimskij-Korsakov, compositore, ormai ultrasessantenne, di immenso quanto prolifico successo, avrebbe potuto e dovuto tenersi ben lontano da ogni possibile polemica nei confronti del Sistema. Invece, proprio come afferma il Poeta, la Storia, talvolta, “non si ferma davvero davanti a un portone”, fosse anche quello di una scuola di musica, “la Storia entra dentro le stanze, le brucia”, e, soprattutto, “la Storia dà torto o dà ragione”; così Rimskij si fece trasportare dalle idee progressiste dei suoi studenti, tra i quali avevano già militato nomi del calibro di Prokof’ev, Stravinskij, Glazunov e l’italiano Respighi, schierandosi immediatamente dalla parte delle giovani vittime della repressione zarista, scelta che gli costò finanche la cattedra a seguito di un provvedimento repressivo delle autorità dell’epoca che, in realtà, fu presto annullato a fronte di una serie di dimissioni da parte dei membri della Facoltà. Pur reintegrato nella sua posizione cattedratica, Rimskij-Korsakov si decise a comporre un’opera per denunciare il fallimentare regime zarista, ridicolizzandolo in modo impietoso per l’insulsaggine del suo potere tirannico: nasce così “Il gallo d’oro”, scritta tra il 1906 e il 1907 ispirandosi ad una favola in versi del 1835 di Puskin, ridotta a libretto da Vladimir Ivanovič Bel’skij. Ovviamente la pesante satira politica, seppur travestita da fiaba con accomodante epilogo, non sfuggì alle autorità imperiali di un regime autocratico che aveva già represso nel sangue i tumulti del 1905; la rappresentazione dell’Opera venne immediatamente vietata e si dovrà aspettare il 24 ottobre 1909, sempre sotto il regno dello zar Nicola II Romanov, per metterla in scena, ben un anno e tre mesi dopo la morte del compositore, avvenuta per un attacco di angina pectoris, parrebbe dovuto proprio alla censura caduta, senza appello, sulla sua ultima fatica operistica.
Oggi questo importante tassello della cultura musicale russa giunge a Bari, inserito nel cartellone della Stagione Lirica 2021 della Fondazione del Teatro Petruzzelli, nel prestigioso allestimento dell’Helikon Opera Moscow, già ospite del nostro Politeama nel 2019 con l’Evgenij Onegin di Čajkovskij, con la arguta regia del suo direttore artistico Dmitry Bertman, che mette in atto un poderoso aggiornamento dell’ultima Opera di Rimsky-Korsakov sino a trasportarla ai giorni nostri, sostanzialmente mutando tanto il racconto di Pushkin, in cui il protagonista, lo zar Dodon, era visto come uno sfortunato leader che tenta di proteggere i confini del suo regno governando dal suo letto ed affidandosi ai consigli canterini di un galletto d’oro, quanto la composizione del 1907 ed il suo poco velato schernirsi dello zar Nicola II dopo la sua umiliante sconfitta nella guerra russo-giapponese.
Nella sua messa in scena, Bertman, che è un moscovita puro, costruisce una figura di dittatore più vicina ai capi di governo della attuale stagione politica russa, dilettandosi nel presentare lo zar come un buffone ubriaco che condivide una vasca idromassaggio con i suoi figli e il suo Generale, succhiando il latte dal biberon di un bambino, e crede ingenuamente che il dono dell’astrologo di un gallo d’oro fornirà un efficace sistema di allarme dagli attacchi vicini, così da poter finalmente poltrire nel suo letto (che Bertman fa diventare un tavolo da lavoro con annessi telefoni tanto caro all’iconografia cinematografica bolscevica), coccolato dalla sua assistente personale Amelfa. Ma quando il gallo annuncerà pericolo e gli incapaci figli dello zar, mandati in avanscoperta, non daranno più loro notizie, dovrà essere lui stesso, nonostante la sua riluttanza, ad andare al fronte, sino a giungere all’accampamento della Regina di Šemacha che lo seduce agitando una gonna plissettata d’oro, lasciando intravedere la possibilità di scoprire sconosciuti paradisi sessuali. Convinto dalla concubina finanche a prodursi in una danza (che riporta alla memoria il professore-pagliaccio Immanuel Rath, creato da Heinrich Mann e reso immortale da “L’angelo azzurro” di Josef von Sternberg con la divina Marlene Dietrich), lo zar le offrirà il suo cuore ed il suo regno; quando l’astrologo torna a Palazzo chiedendo proprio la Regina come sua ricompensa, la storia sembra volgere al dramma: Dodon uccide il mago e, nella stesura originale, il gallo vendica quest’ultimo beccando a morte lo zar. Ma, nella rivisitazione bertmaniana, Amelfa aveva già divorato l’uccello all’inizio del terzo atto, a tutto vantaggio del leader che riapparirà, al termine dell’epilogo, quasi rinnovato, rinvigorito, forse immortale.
Ebbene, pur avendo compreso appieno le ragioni che muovono le scelte del regista, ben sostenute dall’impianto scenografico e dai costumi creati da Ene-Liis Semper, dal disegno luci di Thomas Hase e dalle coreografie di Edwald Smirnov, non è possibile dirsi pienamente convinti dalla sua messa in scena, allontanatasi troppo dalla tradizione in virtù di una ancor più fremente critica nei confronti dei nuovi zar russi, trasformandosi, di fatto, in una parodia della parodia; l’estrema forzatura del feroce scherno produce un’incrinatura troppo forte per essere sopportata e sorretta dall’esile fiaba puškiniana, facendo dissolvere – o quasi – il sottile demonismo burlesco alla base della satira politica korsakoviana, sino a giungere alla preventiva distruzione del feticcio iettatorio e vendicativo del galletto al solo scopo di rendere ancor più opprimente il clima infido di un potere capace di sopravvivere a se stesso senza incontrare alcun ostacolo, tanto nel popolo quanto nell’elemento sovrannaturale.
Discorso ben differente merita la parte orchestrale, affidata alla bacchetta del M° Yevgeny Brazhnik che ha diretto un’altra magistrale prova del Coro, come sempre magistralmente preparato da Fabrizio Cassi, e dell’Orchestra del Teatro Petruzzelli, che ha dell’incredibile se ci si sofferma a pensare alle difficoltà della partitura di un’Opera giudicata non solo uno tra i più fulgidi esempi di transizione fra il vecchio e il nuovo, ma anche, nello specifico, il punto di arrivo di un autore che aveva fatto della modernità la sua cifra stilistica, che, pur essendosi sempre professato conservatore, era, in realtà, un profondo innovatore, considerato, a tutta ragione, il precursore delle esperienze innovatrici novecentesche che sarebbero esplose negli anni successivi, dallo Stravinsky de “L’uccello di fuoco” al Prokof’ev de “L’amore delle tre melarance”.
I colori caleidoscopici, le invenzioni melodiche, l’armonia chiara e lineare unita a ritmi inafferrabili, i toni popolari, l’asciutto e pungente rigore ritmico, i cromatismi wagneriani: nell’esecuzione barese tutto è reso con dovizia di particolari, con vigoroso trasporto, con immarcescibile rispetto, prestando attenzione a circoscrivere situazioni e stati d’animo psicologici, evidenziando il carattere fantasioso dell’Opera.
Eccellente la performance di Lidiya Svetozarova nel ruolo della seducente Regina di Šemacha (di fatto, la protagonista della pièce), convincente anche scenicamente nel rendere mirabilmente gli aspetti seducenti della malvagità femminile, sorprendente per l’estensione del suo registro, scevra dal puro tecnicismo, ma mai in imbarazzo di fronte ai tortuosi colpi di scena strumentali ed alle trappole celate da Rimsky nella partitura; il suo “Inno al sole” – parzialmente pronunciato anche in italiano – è stato, nella sua purissima linea melodica, probabilmente il momento clou della serata, assieme alla citata ottima prestazione dell’Orchestra e del Coro del Teatro Petruzzelli, quest’ultimo perfetto soprattutto nel drammatico passaggio riportato in apertura d’articolo. Mikhail Guzhov ha interpretato in modo convincente, accentuandone gli aspetti comici, lo zar Dodon, facendo – in pratica – coppia fissa con l’alcoolizzato Generale Polkan di Dmitrii Skorikov, sempre nella sufficienza. L’impervio ruolo dell’astrologo è stato ricoperto in modo encomiabile, anche se talvolta troppo sopra le righe, soprattutto nelle note acutissime, da Ivan Volkov, mentre il vivace gallo di Maiia Barkovskaya è stato espressione di massima precisione, semplice ma elegante, peraltro cantando da entrambi i lati dei palchi di II ordine del Teatro, per una visione registica in odor di richiamo strehleriano. Molto efficace l’Amelfa di Ksenila Vaznikova, che qui diviene il vero potere dietro il trono al punto da essere, come detto, la giustiziera del gallo d’oro, mentre Dmitry Khromov e Maxim Perebeynos hanno ben impersonato i figli sempre alticci dello zar, cui Bertman ha evitato la morte della partitura originale, riducendoli a spettri senza coscienza ed amor di patria, al punto da spingersi a tornare a Mosca nel III atto indossando le famose magliette “I ♥ Paris”, in un ulteriore gioco di stravolgimenti che ci allontanava sempre più dall’opera di Rimskij-Korsakov.
Repliche ancora oggi, martedì 16 novembre alle ore 20.30, e domani, mercoledì 17 novembre alle ore 18.00.
Pasquale Attolico
Foto di Clarissa Lapolla photography