“Nel languore amoroso qualcosa se ne va, senza fine; è come se il desiderio non fosse nient’altro che questa emorragia. La fatica amorosa è questo: una fame amorosa che non viene saziata, un amore che rimane aperto.” (Roland Barthes)
“Spuntò un fiore del colore del sangue, come quello della melagrana che cela i suoi granelli sotto la flessibile scorza. Non lo si può però godere a lungo. Non è bene attaccato al suo stelo ed è talmente leggero che tende a cadere e facilmente lo strappano i venti da cui deriva il nome.” (Ovidio)
Trenta minuti o poco meno: è il tempo che Roberto Latini si e ci concede per il suo “Venere e Adone – Siamo della stessa mancanza di cui son fatti i sogni”. Un tempo piccolo, etereo, evanescente, impalpabile, limitato, come la vita che la natura ha dato in destino all’anemone, che le citate parole d’Ovidio vorrebbero creato a suggello della sfortunata storia d’amore tra la dea e l’umano, ma che può, come questo, trasformarsi in una visione luminosa, fulgida, caleidoscopica, splendente, finanche accecante, che trascolora nel dono di sé, nella trasmissione e condivisione di visioni, sensazioni ed emozioni che catturano quanti vogliano lasciarsene attraversare, plasmare, trasportare in un luogo ‘altro’, in un altrove difficilmente individuabile ed accertabile, ostaggi di un’ascesi che rende arduo quanto sgradito il mesto ritorno ad una ristretta quotidianità.
Quando giungiamo a Santa Teresa dei Maschi di Bari, l’insolito palcoscenico è al buio, immerso nel silenzio, eppure, nell’ombra, si muove un’ombra, inquieta, preda del suo deliquio, di un sogno o – più presumibilmente – di una reminiscenza che, quando finalmente il velo delle tenebre viene squarciato, sembra averla definitivamente catturata, imprigionata, legata, infettata, contaminata, al punto da non poter evitare di abbandonarsi ad un tormentato delirio e trasmettercela, contagiandocene.
Chi è, o cos’è, questa visione, questo spirito, questo alito o anelito di vita, dalle ali annientate e dall’arco inadoperabile? Icaro, volato troppo in alto per cercare il calore del sole? Lucifero, lasciato precipitare negli inferi dal suo Creatore? Cupido, cieco, prostrato e abbattuto, vittima dei suoi stessi errori? Un dio o una dea, forse Venere stessa caduta dall’Olimpo? O, più semplicemente, Adone, finalmente conscio di aver colpevolmente ucciso l’amore, non solo per se stesso ma per l’umanità tutta cui ha negato la possibilità di unirsi definitivamente alla divinità, rifiutando che l’irrealizzabile si realizzasse, che il miracolo si compisse?
Non importa, perché, chiunque o qualunque cosa fosse, ormai non è più, non è che memoria, rappresentazione, riproduzione di quel che è stato o che – peggio – avrebbe potuto essere: un dipinto non concluso racchiuso in una cornice troppo grande; un fermoimmagine di un film mai realizzatosi, dimenticato su di un green screen ormai spento; una vita naufragata, arenata, incagliata, rinchiusa, come in bottiglia, in attesa di eventi e di venti che la riportino in mare aperto; un amore irrisolto, interrotto, abortito eppur guardato con dolcezza, nonostante la consapevolezza dell’irretroattività, dell’inoppugnabilità, dell’irripetibilità, dell’ineluttabilità.
Tutto si fa confuso, criptato, incomprensibile se non si utilizza un orecchio inconsueto, invisibile se non si guarda con occhi diversi: le parole di Ovidio e Shakespeare (ri)affiorano dalla memoria, declinandosi con le opere visive di Canova, Tiziano, Carracci, Lemoyne, Rubens, ma vengono spesso interrotte da veri corto circuiti della mente, in cui persino i volti e le voci dei protagonisti si mescolano sino a divenire indefinite, in una interpretazione eziologica della nozione stessa di Amore o, forse, dell’assenza d’Amore, incapace di districarne il groviglio di paradossi e contraddizioni e finanche di ipotizzarne la genesi, smarritasi nell’altalenarsi e nel ripetersi perpetuo di antonimi ed ossimori che sono alla base del concetto stesso del desiderio.
Tutto ciò che è stato – semmai lo è stato davvero – diviene altro: la realtà si fonde con la fantasia, l’immagine con l’immaginato, sino a dissolversi, salvo poi, forse, tornare a materializzarsi, costretta a ripetersi all’infinito, come fosse la condanna per un’anima dannata in un girone dantesco.
“Voler scrivere l’amore, significa affrontare il ‘guazzabuglio’ del linguaggio, quella zona confusionale in cui è insieme ‘troppo’ e ‘troppo poco’, eccessivo, per la sommersione emotiva, e povero, per i codici entro i quali viene costretto e appiattito” dice ancora Barthes; nella visionaria elaborazione di Latini, prodotta dalla Compagnia Lombardi Tiezzi e realizzata nel periodo del lockdown pandemico, come fu peraltro anche per lo stesso Shakespeare allorquando fu costretto all’inattività dalla peste, la parola riprende vigore, fluidità, vitalità, si fa penetrante e – spesso – devastante, sino a fissarsi indelebile nella memoria del pubblico che ha affollato l’ultimo appuntamento dell’annuale cartellone del Festival “Il peso della farfalla”, il bellissimo progetto dell’Associazione Punti Cospicui che, grazie all’ottima direzione artistica di Clarissa Veronico, da sei anni a questa parte è uno dei fiori all’occhiello della programmazione culturale barese.
Solo sulla scena, bardato nel costume di Gianluca Sbicca, costretto nelle scene di Marco Rossi, coadiuvato, accarezzato, se non stimolato, dalle splendide architetture del suono di Gianluca Misiti e delle luci di Max Mugnai, mentre è il protagonista stesso ad occuparsi degli effetti vocali, unico degno erede di una ricerca che affonda le sue radici nel Genio di Carmelo Bene, Roberto Latini è l’attore per eccellenza, più che perfetto in ogni istante della performance, sublime affabulatore che sembra metterci davanti agli occhi uno specchio nel quale rimirare la parte più segreta di noi stessi.
Nella sua Opera c’è un senso di compiuto ed, allo stesso tempo, di insoluto ed anche indefinito, scevro dall’inutile chiacchiericcio che contraddistingue i nostri poveri tempi, bensì colmo di parole e silenzi (“il teatro mi ha insegnato che le parole si misurano nella qualità del silenzio che riescono a produrre” dice Roberto) che sanno contenere bellezza allo stato puro e vertiginose profondità, e che, in un incessante scomporre e ricomporre, vengono aperte e dilatate sino al limite pur di farne ‘sentire’ tutto l’incanto, realizzando una autentica ed incantevole rivoluzione che innalza esponenzialmente la potenza di un testo infiammato da scintille di sì rara intensità che, illuminando, ustionano, ‘interpretandolo’, trascendendone il senso stesso, lasciando che divenga un “pre-testo”, un prologo, un richiamo, un codice, un segnale, uno stimolo, uno stratagemma, un grimaldello che riesce ad insinuarsi tra le pieghe dell’anima e a spalancarle per farvi entrare luce e poesia; così, attraverso il suo corpo e la sua voce, ancora una volta resisi magnifici prisma, Latini ci consegna la Parola e l’Amore, riconsegnandoci, dopo tanta immobile sofferenza, alla Vita stessa, finalmente vissuta, voluta, vera.
Pasquale Attolico