Un vortice passionale, un cocktail inebriante, un’affabulazione caleidoscopica ed ipnotica: Roberto Corradino con il suo “#Shakespearealacàrte” all’Arena Kismet di Bari

Ho sempre pensato che la festa a casa Capuleti fosse una specie di sliding door, che attraversata o evitata conduce a storie diverse. Se Romeo decidesse di non andare alla festa? E se tutta la storia fosse solo il sogno di una giovane mente eccitata dall’amore? E se fosse proprio l’amore la chiave che apre le porte del tempo proiettandoci nell’eterna favola dei due innamorati? (…) La festa è un ballo in maschera, che dopo il primo sguardo e la fatidica scintilla si trasforma in un sogno di epoche lontane (…), in un gioco di specchi in cui si raccontano due realtà, due secoli, due mondi. (…) La storia si ripete e il rituale d’amore e odio non va a buon fine, come un rito iniziatico in cui l’eroe non riesce a superare la prova. Nessuno dei giovani oltrepassa il confine della maturità, nessun adulto li sa accompagnare nel viaggio. Si passa dai giochi alla tomba, come in ogni tempo può accadere, in una tristissima favola avvelenata dall’odio, che si trasforma nell’ecatombe di un futuro.” (Gigi Proietti)

È possibile trasfigurare una storia romantica e profonda in una baraonda di situazioni al limite del farsesco, se non del clownesco, per poi farla ricadere nel dramma? E se quella storia è la più classica e rappresentata storia d’amore di tutti i tempi? Nell’immaginario collettivo, “Romeo e Giulietta” di William Shakespeare è la tragedia sull’amore e sulla tragicità dell’amore per antonomasia; per dirla con Benedetto Croce, “tutti, parlando di Romeo e Giulietta, hanno provato il bisogno di ricorrere a parole e immagini soavi e gentili; e lo Schlegel vi ha sentito «i profumi della primavera, il canto dell’usignuolo, il delicato e fresco di una rosa mo’ sbocciata», e lo Hegel ha pensato allo stesso fiore: alla «molle rosa nella valle di questo mondo, spezzata dalle rudi tempeste e dall’uragano»; ed il Coleridge, di nuovo, alla «primavera coi suoi odori, i suoi fiori e la sua fugacità». Tutti lo hanno considerato come il poema dell’amor giovanile, e hanno riposto l’acme del dramma nelle due scene del colloquio d’amore attraverso il notturno giardino e della dipartita dopo la notte nuziale, nelle quali è stato scorto da taluni il rinnovarsi di forme tradizionali della poesia d’amore, l’epitalamio e l’alba”.

Certamente il Romanticismo si è impadronito della pièce al punto da farle assumere la funzione di paradigma dell’amore puro, rarefatto e senza condizioni, finanche identificandola con la sua trattazione idealistica e romantica, ma è indubbio che ben altro si cela simbolicamente in quelle parole; in controluce, infatti, è rintracciabile ogni riferimento neoplatonico al più puro Rinascimento, primo fra tutti l’eco di un’epoca bellicosa come quella effettivamente vissuta da Shakespeare, con il personaggio del Principe che richiama immediatamente alla mente la figura della Regina Elisabetta, sempre alle prese, tra le stesse mura del suo Stato, con le guerre di religione e con i cruenti conflitti tra famiglie. Dunque, l’opera è ben più ricca e densa di quanto generalmente si creda: perfetta sintesi delle fonti cui il Bardo si è ispirato, tra cui vanno certamente annoverate le novelle di Luigi da Porta, Masuccio Salernitano e Matteo Bandello, a ritroso sino alle figure di Piramo e Tisbe tratteggiate da Ovidio, fonde tutti i generi e tutti gli stili, mélange ardito di comico e patetico, andamento prosastico e slancio lirico, linguaggio grossolanamente rozzo e lirismo profondamente raffinato, il tutto immerso in una poesia che oltrepassa il tempo e lo spazio, essendo peraltro scritta, per la quasi totalità, in versi, a tratti anche ritmati. Eppure, negli innumerevoli adattamenti scenici e cinematografici cui abbiamo assistito, raramente ci è capitato di trovarci di fronte a letture che ponessero l’accento su questi ulteriori aspetti della scrittura shakespeariana così come è accaduto qualche sera fa quando, sul palco della neonata Arena Kismet di Bari, si è palesato il nostro Roberto Corradino con il suo “#Shakespearealacàrte”.

Ciò a cui abbiamo assistito è stata una esaltante, entusiasmante, elettrizzante “prova aperta”, in cui la celeberrima storia del Bardo ha preso forma ed è stata deformata, alterata, commutata, violentata, nel mescolarsi di trame, dialetti, suoni, parola scritta ed estemporaneità, trasformando l’Opera in materia viva nel quale immergere le mani, per portare sul palco, attraverso tempi, modi e atmosfere della Commedia dell’Arte e del Grande Teatro Popolare, le più recondite passioni dell’essere umano. Corradino, capace, da splendido acrobata dell’interpretazione qual è, di cogliere gli umori del pubblico per assecondarlo, certo, ma anche per pilotarlo, rilegge il classico shakespeariano rendendolo contemporaneo, se non “conterraneo”, con stile irriverente e scanzonato ma mai irrispettoso, fluttuando leggero e sicuro dentro e fuori i mille personaggi richiesti dalla storia, in un caleidoscopico percorso sempre coinvolgente, ilare o commosso, esilarante o emozionante, dove a farla da padrone è l’Arte della recitazione e dell’improvvisazione. Grazie alla sua sola affabulazione adrenalinica, senza orpelli in aiuto, si rincorrono gli inestinguibili odi familiari, lo sferragliare delle spade, i sussurri amorosi, l’enfasi e il lirismo sentimentale, la passione struggente, la disperazione angosciante, il ballo intrecciato del caso e della malasorte, il sinistro operare dei veleni nel freddo dell’avello, l’amore che eleva le anime in cielo e la morte che trascina i corpi sottoterra.

Nel grembo ovattato del teatro, la voce narrante di Corradino, ora Romeo, ora Enrico IV, ora Alceste, vibra, emoziona, indugia, con gioco sapiente di ritmi ed intonazioni”, ha detto Lilli Arbore su queste stesse pagine; ed, in effetti, di rado Romeo ci è apparso vivo e debole e fragile e drammatico e attuale e – in una parola sola – umano, come nell’interpretazione dell’artista pugliese, ancora una volta strabiliante ed ipnotica, grazie ad un saggio processo non soltanto di creazione, ma anche di formazione e ricerca, che dà vita ad un vortice passionale, un cocktail ubriacante, reso ancor più inebriante dal rapido passaggio da uno stato d’animo all’altro; così l’attore, il “semplice” interprete, si trasforma in demiurgo dai dichiarati intenti popolari ma dalla malcelata inclinazione poetica, con la sua inimitabile voce che diviene preziosissimo ed imprescindibile simulacro dell’amore, della passione, della vita stessa.

Pasquale Attolico

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