Gli dèi se ne vanno, gli arrabbiati restano: il percorso umano del mito Roberto Baggio nell’ottimo “Il Divin Codino” di Letizia Lamartire

“Il mito greco insegna che si combatte sempre contro una parte di sé, quella che si è superata, un antico se stesso. Si combatte soprattutto per non essere qualcosa, per liberarsi. Chi non ha grandi ripugnanze, non combatte.” (Cesare Pavese)

“Non importa che il mito perisca, se ricostruiamo l’universo di cui è linguaggio. Muoiano pure gli dèi, ma non quello stormire di fronde che li origina.” (Nicolás Gómez Dávila)

Prima di tutto, due ammissioni, proferite sottovoce, come se si fosse in confessionale.
La prima. Sono stato uno spettatore della prima ora de “Il Divin Codino”, il biopic diretto da Letizia Lamartire e prodotto da Netflix e – tanto vale chiarirlo immediatamente – ne sono stato subito entusiasta ammiratore, consigliandone la visione a chiunque potessi raggiungere con ogni mezzo; nonostante questo, dopo molte laceranti quanto amletiche riflessioni, mi ero deciso a non scriverne, a “causa” della nota amicizia che mi lega ad importanti componenti di questo progetto cinematografico. Il motivo per cui ho cambiato idea appartiene al punto successivo.
La seconda. A molti sarà saltato agli occhi che il titolo di questo scritto non mi appartiene, bensì è stato rubato a piene mani da un album del gruppo degli Area, l’ultimo prima della prematura dipartita di Demetrio Stratos, un altro innegabile mito moderno. Ebbene, quella frase così lapidaria mi era già balenata in mente durante la visione del film, ma era tornata preponderante a visitarmi ogniqualvolta mi capitava di imbattermi in critiche non benevole – invero, non sono state molte le occasioni -dell’opera, giunte soprattutto da parte di quanti, per atavica formazione, sono cresciuti a pane e pallone, soggetti di solito sovrapponibili a quelli che si danno arie da navigati allenatori, quasi tutti con un sogno irrealizzato nel cassetto che, talvolta, viene trasmesso di generazione in generazione, salvo poi indicare nella sfortuna o in poco pulite pratiche di Palazzo la cagione del loro fallimento. Ed eccoci qui.

Innanzitutto, lasciatemi fare un plauso al grande coraggio di Letizia che, dopo il sorprendente “Saremo giovani e bellissimi”, ha accettato di porsi al comando di un’operazione pericolosa sin dalla sua genesi: specialmente in Italia, anche per i suddetti motivi, confrontarsi con un campione così amato è paragonabile a camminare su un campo minato, anche se, come nel caso di specie, non si prescinde mai dall’amabile presenza e vaglio dell’interessato; si sa preventivamente che ci sarà sempre chi sarà scontento del risultato. A quanti ci hanno già provato e a quelli che ci proveranno in futuro, diciamo con forza che non c’è niente di più sbagliato del voler inserire questo film nel novero delle decine e decine di pellicole – per lo più documentaristiche – dedicate ai miti del calcio: il progetto della Lamartire è davvero da un’altra parte, lontano anni luce anche dal recente – per lo più macchiettistico – “Speravo de morì prima”, la serie tv dedicata a Francesco Totti; qui parliamo di cinema vero, di una pellicola –la parola, ormai arcaica, è d’obbligo – che ha una sua altissima cifra, dalle parti – se proprio occorre trovarle una collocazione – di “Rush” di Ron Howard o di “Borg Vs. McEnroe” di Janus Metz e di quelle altre che, pur rifacendosi a personaggi reali del mondo agonistico, non si accontentano di mostrarne gli onori, ma ne sottolineano, anche amaramente, gli oneri, i doveri, i gravami, i pesi, soprattutto psicologici, cui nessun talento sportivo è riuscito mai a sottrarsi.

Eppure, rispetto a questi best sellers del genere, Letizia prova a fare un ulteriore passo avanti: il suo occhio offre una visione “altra”, non compiacente ed adorante ma mai distaccata, che – se ci è concesso – definiremmo materna, della parabola di un ragazzo – perché, in fondo, è di ragazzi che parliamo, anche se spesso lo dimentichiamo – che si fa uomo, finanche rinunciando – non del tutto, naturalmente – alle gesta mitiche del Divin Codino sul rettangolo di gioco, scegliendo di giocare su un altro campo, soluzione, a conti fatti, ben più avvincente della semplice elencazione – che la regista barese avrebbe potuto realizzare facilmente, accontentando ogni palato – di immagini di repertorio, maglie, trofei; ad esempio, il Pallone d’oro, emblema di una carriera irraggiungibile, c’è e si vede, ma viene catalogato al pari di un ulteriore macigno sulla schiena del nostro eroe sul suo percorso di vita, il più delle volte drammaticamente in salita.

Non occorre essere appassionati di sport per accedere alla storia declinata nel film, anzi forse sarebbe meglio non esserlo, presentarsi alla visione nudi, liberi, dimentichi delle fasi di gioco a firma Baggio ancora impresse nella nostra memoria, di quel campione sempre in bilico tra paradiso ed inferno, demonio e santità, gioie e dolori, discese e risalite, il tutto a partire da quel maledetto giorno in cui dovette affrontare il primo grave infortunio della sua inimitabile carriera; è Roberto a guadagnarsi la ribalta, lasciando spesso in secondo piano Baggio, con tutte le sue umanissime contraddizioni e le scelte di vita che spesso divisero l’Italia in due, come la sua conversione al Buddismo che, inizialmente, non andò a genio al popolo dei tifosi nella sua globalità, anche se oggi pare che tutti lo abbiano dimenticato.

“Il mito è un modo di portare senso in un mondo privo di senso. I miti sono strutture narrative che danno significato alla nostra esistenza. Che questo significato sia semplicemente quello che ognuno di noi attribuisce alla vita in virtù della sua personale forza d’animo, come direbbe Sartre, o che l’esistenza abbia un significato, e a noi tocchi scoprirlo, come direbbe Kierkegaard, nulla cambia: il mito è il nostro modo di trovare quel significato. I miti sono come le travi di una casa: non si vedono dall’esterno, ma costituiscono la struttura che la tiene in piedi e la rende abitabile.” diceva Rollo May nel suo “The cry for Myth”, ma la Lamartire riesce a superare anche questa definizione, separando il mito dall’uomo, distinguendo, come dice la splendida canzone di Diodato sui titoli di coda, l’uomo dietro il campione, in modo da far comprendere anche allo spettatore più ostico che quando Baggio sembra fallire, smarrendo la strada del mito, non sarà Roberto a perdere il proprio posto nell’universo; in questa prospettiva, anche il famoso rigore sbagliato nella finale dei Campionati del Mondo in USA nel 1994 diventa un episodio, senza dubbio importante, forse fondamentale, nella carriera, ma comunque sempre relativo e parziale nell’esistenza dell’uomo, un tassello di un mosaico che, scrutato nella sua perfetta totalità, risulta ben più incantevole dell’attimo fuggente che si dedica ad un tiro dal dischetto.

E, per farci conoscere l’uomo Baggio nel suo insieme, Letizia, grazie ad un uso nitido, incisivo, definito e definitivo della macchina da presa, assolutamente maturo nonostante sia solo al suo secondo lungometraggio, sembra, particolarmente attraverso un utilizzo dei primi piani da antologia del Cinema, voler entrare nell’animo, nel cuore, nella psiche dei personaggi che animano la vicenda, afferrandone l’essenza, riscoprendone le radici ed inquadrandone gli aneliti e le attese, carpendone l’ancestrale visione interiore, illuminando il brandello di eternità cui sono stati consegnati; in questa ottica, ne escono esaltate le interpretazioni di Valentina Bellè (Andreina, moglie di Baggio), Anna Ferruzzo (Matilde, madre di Baggio) Thomas Trabacchi (il manager Vittorio Petrone), Riccardo Goretti (Maurizio Boldrini, l’amico buddista), Antonio Zavatteri (Arrigo Sacchi), Martufello (un godibilissimo Carletto Mazzone), e soprattutto del giovane Vito Luigi Fornarelli (Baggio da ragazzo), cui auguriamo un roseo futuro nella recitazione, circostanza che potrebbe avverarsi dato che, alla sua prima prova, convince anche solo con lo sguardo con cui si apre il film, e – ça va sans dire – dell’ottimo Andrea Arcangeli nel ruolo del protagonista e di un maestoso Andrea Pennacchi che, da par suo, tratteggia un Florindo Baggio, il papà di Roberto, assolutamente indimenticabile, grazie alla – ormai consueta – impareggiabile prova attoriale, che diventa finanche monumentale in più di un’occasione, prima fra tutte nella commovente scena finale che – attenti allo spoiler – gode anche del cameo di Valentina Baggio, primogenita di Roberto, nel ruolo della cassiera dell’autogrill, presenza taciuta al padre sino alla prima visione, a ranghi ristretti, del lavoro.

Attraverso le loro parole, i loro gesti e, forse principalmente, i loro silenzi, Letizia Lamartire riesce a far sì che l’individualità del mito si trasformi in afflato collettivo, il soggettivo in generale, il privato in pubblico, il particolare in comune; ed alla fine si percepisce che un po’ di quell’uomo così speciale, dalla storia più unica che rara, è dentro ognuno di noi, come un seme germogliato e diventato un albero dagli incerti frutti, che si è sempre sul punto di abbattere (un’altra delle scene emotivamente più forti dell’intera opera) in quanto non corrispondente alla nostra idea, al nostro anelito di eternità, ma che poi continuiamo a coltivare nei territori più reconditi della nostra anima, perché, come si diceva con il filosofo Dávila in apertura d’articolo, quello stormire di fronde che origina gli dèi non muoia. Mai.

Pasquale Attolico

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2 commenti su “Gli dèi se ne vanno, gli arrabbiati restano: il percorso umano del mito Roberto Baggio nell’ottimo “Il Divin Codino” di Letizia Lamartire

  1. Patrizia Rispondi

    Una recensione di altissimo spessore culturale. Scrittura raffinata che si fa intaglio fra fatti narrati ed emozioni, cesellando parole e pause.
    Un esempio di giornalismo che, per fortuna, ancora esiste e r_esiste.

  2. Marcella Rispondi

    Che bella questa recensione! Pasquale Attolico è riuscito a descrivere in maniera davvero delicata e precisa il lavoro della Regista e la sua scelta (molto coraggiosa!) di raccontare “l’Uomo dietro il pallone” e non solo il giocatore. Un film da vedere e rivedere, per cogliere ogni volta nuove sfumature.

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