Le città statunitensi, al di là delle loro specificità, hanno un comune denominatore che le rende tutte molto simili tra loro, ad eccezione di Miami.
Joan Didion, autrice di culto, autentica icona della letteratura americana, fedele alla miglior tradizione del New Journalism americano, nel suo libro “Miami” ci consegna il racconto di una città che sembra “una fiaba, una storia d’amore ai tropici, una specie di sogno a occhi aperti in cui tutto è possibile“.
Nel comune sentire, abbiamo sempre immaginato una città dalle tinte pastello, evocata da tanti film che l’hanno vista come teatro ospitante, da Scarface alle serie tv Miami Vice – per lo più di genere criminal o poliziesco -, connotata da fuoriserie cabriolet o da fantastiche Harley Davidson sfreccianti su Ocean Drive, da spiagge e grattacieli, da personaggi estrosi ed improbabili, da quella libertà di espressione personale che tanto aveva affascinato nei tempi più recenti lo stilista Versace, ma anche quel posto che per la sua bellezza naturale aveva fatto innamorare anzitempo Ernest Hemingway, che aveva individuato la parte più a sud, verso Key West, quale luogo ideale per vivere.
Miami è un’altra sede dei Caraibi, poco a che vedere insomma con New York e Los Angeles, ma molto, molto da spartire con La Habana, Caracas, Bogotá o Cartagena.
Molto condizionata dalla circostanza che proprio qui Fidel Castro trovò ausilio per sconfiggere Batista, e soprattutto dal fatto che qui due generazioni di cubani – considerabili cospiratori e dissidenti, innamorati del sogno americano e delle libertà, malviventi e idealisti visionari – hanno cercato di combattere il regime castrista dalla postazione dell’esilio offerto dalla città americana, mescolandosi anche a quella parte del mondo cinico e ingannevole della sua intelligence, a cominciare dalla invasione fallita della c.d. Baia dei Porci fino ai nostri giorni.
Attualmente, la città, al di là dei suoi famosi grattacieli e dei numerosi edifici in stile Art Decò degli anni ’20, che rappresenta un pezzo della storia dell’architettura del XX secolo, ospita decine di etnie diverse, tra cui spiccano la comunità latino-americana e caraibica di lingua spagnola e creola, che si sono impiantate in quartieri come Little Habana, ma anche e soprattutto a Miami Beach; il quartiere cubano, infatti, ospita la più grande comunità cubana e latina al mondo.
Negli anni ’50 i cittadini cubani iniziarono a emigrare qui, e il loro numero continuò ad aumentare dopo che, nel 1959, Fidel Castro salì al potere. Ma ad abitare in quest’allegra “altra Cuba” sono ora comunità provenienti da tutta l’America Latina di lingua spagnola, Salvador e Nicaragua in particolare.
Il cuore di Little Havana è Calle Ocho tra la 13th e la 17th Avenue, da visitare rigorosamente a piedi. In questa strada si trovano ancor oggi vecchie signore cubane che confezionano sigari, bar che offrono sia mojito, cocktail a base di lime, zucchero di canna, menta e rhum, che daiquiri, cocktail tanto amato da Hemingway, da preparare rigorosamente con doppio rhum, decine di ristoranti cubani e negozi in cui risuonano le vibranti e nostalgiche note di Tito Puente, Eliades Ochoa, Compay Secundo o Ibrahim Ferrer e dove si possono trascorrere magiche noches latinas.
Uno dei luoghi più suggestivi ancor oggi di Little Havana è il Parco Máximo Gómez, in cui si riuniscono gli anziani cubani riconoscibili dagli inamidati e sobri vestiti di cotone con la testa coperta dal loro “panama” per ripararsi dal sole cocente, per fumare un sigaro, giocare a domino o a scacchi, preservando gelosamente le tradizioni cubane dalla commistione con quelle più tipicamente americane.
Più in generale, Miami Beach con il poderoso sviluppo turistico ha offerto generosamente lavoro ai tantissimi latini che hanno trovato in essa il loro piccolo “sogno americano”, affrancandosi da dittature e da condizioni economiche impossibili da sopportare nei Paesi di provenienza.
E questo, al di là delle politiche proibizionistiche in tema di emigrazione clandestina succedutesi nel tempo, ha conferito a Miami quella connotazione unica e specifica che la differenzia anche da altre città statunitensi di frontiera, come ad esempio San Diego, che si sono dimostrate più resistenti ad accogliere le tradizioni messicane e sono rimaste più tipicamente americane.
Ciò che altresì, a mio parere, rende singolare questa città americana è anche la connotazione geografica, poiché Miami Beach in realtà è un’isola collegata a Miami da quattro ponti. Se Miami Beach rievoca l’idea di spiagge chilometriche, ragazzi che praticano sport in spiaggia, beach volley, giovani in skate board, notti folli, Miami è più tradizionalmente simile alle altre città americane.
I turisti il più delle volte si concentrano su Miami Beach, anzi, a essere più precisi, solo su un suo quartiere, South Beach, senza dubbio la sua zona più vivace, localizzata tra la 6th e la 23rd Street e tra Ocean Drive e Lenox Avenue; corrisponde all’Art Deco District.
Il quartiere comprende oltre ottocento edifici dalle facciate color pastello, costruiti negli anni’20-30 e magistralmente restaurati, che conservano ancora oggi il loro innegabile glamour, caratterizzati da bellissime facciate Decò decorate da cornicioni, balconcini e finestre incorniciate da curiosi baldacchini dai colori pastello.
Lungo l’Ocean Drive tutto sembra evocare la magica atmosfera di quegli anni: non solo le case, i palazzi e gli alberghi, ma anche le ragazze dalle eccentriche mise alla moda, le automobili, i negozi vintage. In quest’area di Miami Beach si concentrano, inoltre, i più famosi ristoranti, i locali ed i bar, punti di ritrovo di artisti, modelli, star della televisione e dello spettacolo, turisti provenienti da ogni parte del mondo.
Qui ha sede la villa in stile ispanico Casa Casuarina, acquistata dal famoso stilista Gianni Versace, che non a caso, in questo luogo trascorse gli anni più in auge anni della sua vita fino alla tragica conclusione.
Altro elemento di interesse, anche gastronomico, è la famosissima Española Way, via che ha costituito il primo sviluppo commerciale di Miami Beach nei primi anni venti, costruita come colonia di artisti con una atmosfera che voleva ricordare quella di Greenwich Village a New York e il quartiere degli artisti di Parigi, ma il suo essere ai Caraibi le dona una caratterizzazione veramente singolare. E’ una pittoresca strada pedonale, fiancheggiata da palme con luci scintillanti che la attraversano per larghezza, un affascinante ritorno al passato nel cuore di South Beach.
Concepita come “villaggio storico spagnolo” da NBT Roney negli anni ‘20, dagli edifici colorati tutti di stucco rosa gesso, con tetti di tegole spagnole anticate, ospita quasi esclusivamente ristoranti tipicamente spagnoli, dove tutto l’anno si può mangiare tanto all’interno che all’esterno, per gustare il pranzo o la cena e un cocktail o un caffè espresso fatto all’europea.
Spostandosi lungo Collins Avenue, si possono ammirare altri meravigliosi palazzi nello stile Art Decò. In poche decine di metri, tra la Lincoln e la 17th St., uno di fianco all’altro, si trovano tre autentici preziosità dell’Art Deco: il Sagamore, il National, il candido ed osannato Delano. Ancora, di seguito, troviamo la famosa spiaggia di So.Be e la sua bellissima passeggiata. La Collins Avenue è quindi una strada ricca di soli alberghi che, nella parte retrostante, hanno i loro bellissimi giardini, le suggestive piscine, e più in là c’è la spiaggia, ampia, bella, con le sue meravigliose e coloratissime torrette di avvistamento con aitanti bagnini e, infine, le onde dell’oceano.
Da quanto detto, si evince che la cucina di Miami è caratterizzata da una forte influenza etnica, in particolare cubana; i sapori e i profumi dell’isola caraibica, in alcuni casi adattati alle esigenze degli americani, si trovano ad ogni angolo, rivivendo nella gastronomia locale, in una felice combinazione di innovazione e tradizione. Le strade, specialmente quelle del quartiere di Little Havana, sono gremite di piccoli ristoranti e chioschi che offrono ottimi piatti e gustosi spuntini a prezzi convenienti, ed è proprio questo il posto da cui partire per l’esplorazione della cucina cubana importata dai cubani che arrivarono a Miami nel corso di vari decenni.
Tra le molte specialità meritano un assaggio i masitas de puerco fritas, teneri bocconcini di maiale fritti, la sopa de platanos, una gustosa zuppa a base di pollo e platano, e il boliche, stufato di manzo aromatizzato con cipolle, peperoni verdi e aglio.
Per i palati più esigenti segnalo la possibilità di degustare piatti raffinati in spettacolari locali di tendenza che propongono cucina fusion certamente a prezzi non proprio modici. Non si può dimenticare che, considerata la connotazione geografica e, quindi, la gran quantità di pesci nelle acque dell’Oceano Atlantico e del Golfo del Messico, sono ottime e sempre freschissime tutte le pietanze a base di pesce e crostacei.
Una citazione a parte meritano le crabs, crostacei tipici dell’Oceano Atlantico, di cui si mangiano le chele, che vengono sapientemente staccate dal corpo, in modo tale che il granchio non solo sopravviva, ma le riproduca ancora più grandi delle precedenti, poiché devono essere capaci di rompere il guscio delle ostriche di cui si ciba.
Da qui la fortuna del famosissimo ristorante di Miami Joe’s Stone Crab, presente sin da inizio ‘900, che non accetta prenotazioni, e, pertanto, è sempre “corredato” da una interminabile fila fisica!
Molto apprezzato anche lo street food, dal tipico Cuban sandwich con prosciutto, carne di maiale, mostarda, formaggio e sottaceti servito nel pane cubano, passando per le empanadas e i pastelitos riempiti di carne o anche dolci (a base di guava rosso o bianco) e arrivando al caffè e al dolcissimo cafe con leche.
La cosa che trovo singolare è che South Beach, per quanto sia esclusiva e chic, non ha spiagge private. Gli alberghi, infatti, intervallati da piccole e graziose stradine pedonali costeggiate da palme, garantiscono l’accesso al mare per chiunque. Gli edifici recettizi hanno l’accesso dalla parte anteriore sulla Collins Avenue e nella parte posteriore sono tutti dotati di piscine fantastiche, bar e ristorantini all’aperto che assicurano l’ingresso e la consumazione nelle loro lobby anche a chi non è ospite dell’albergo.
Per quanto mi riguarda, c’è un’ora del giorno in cui mi piacerebbe stare proprio li, a South Beach, perché, dopo aver trascorso la giornata sulla spiaggia, con musica assordante, bagnini alla Baywatch che fanno vedetta dalle tipiche e colorate torrette di avvistamento, giochi e sport a riva di mare, moto d’acqua e quant’altro, a quell’ora del giorno, tutto questo si spegne e assume colori e suoni e soprattutto ritmi più tenui, e la natura prende il sopravvento su quel mondo di bellezza un po’ costruita.
Quell’ora è precisamente quella che precede il tramonto.
Dopo una giornata di mare, come detto, normalmente si lascia la spiaggia e, tornando in città, ci si attarda proprio in quegli hotel, a cui si accede direttamente dal mare dalla parte posteriore, dove a bordo piscina, sorseggiando un mojito o un dajquiri, si può assaporare, insieme a pasapalos cubani, un nostalgico e vintage cocktail di scampi insieme all’ultimo raggio di sole.
Ricetta
Ingredienti:
Gamberi 16
Lattuga iceberg 60 g
Limoni 4 fette
per la maionese
Tuorli freschissimo 1
Olio di semi di girasole 120 g
Succo di limone filtrato 15 g
Sale fino q.b.
Pepe nero q.b.
per la salsa cocktail
Ketchup 45 g
Salsa Worcestershire 1 cucchiaino
Tabasco® q.b.
Brandy 1 cucchiaino
Procedimento:
Cominciate dalla maionese.
Frullare il tuorlo, insieme a sale, pepe e al succo di limone filtrato, poi versate l’olio di semi a filo, molto lentamente, mentre tenete in funzione il frullatore ad immersione. Dopo pochi istanti avrete ottenuto la maionese e potrete passare alla preparazione della salsa cocktail.
Versate la maionese in una ciotola e aggiungete il ketchup, la worcestershire sauce, poi il brandy. Infine unite qualche goccia di tabasco e fatelo amalgamare con la salsa.
Passate alla pulizia dei gamberi, lasciando però attaccata la coda.
A questo punto disponete le code su una schiumarola e immergetele per qualche secondo in acqua bollente, il tempo necessario per sbollentare i gamberi.
Infine tagliate a listarelle l’insalata iceberg e avete tutto pronto per la composizione.
In un bicchiere da cocktail, versate una cucchiaiata di salsa cocktail, poi aggiungete un ciuffetto di insalata e versate ancora un po’ di salsa.
Disponete i gamberi e infine decorate con striscioline di limone.
Ecco pronto il cocktail di gamberi.
Angela de Mario