Moses Pendleton ed i suoi Momix conducono il pubblico del Teatro Petruzzelli negli inediti e meravigliosi universi di “Alice”

Alice: “Per quanto tempo è per sempre?”
Bianconiglio: “A volte, solo un attimo!”

Esiste la perfezione? Probabilmente non lo sapremo mai. Ma se l’idea che ne abbiamo può, in qualche modo, riferirsi all’uomo, all’essere imperfetto per sua stessa natura, non vi è dubbio che tale alchimia possa riuscire solo ad alcuni coraggiosi pionieri che tentano di liberare il corpo dalla rigida gabbia in cui è costretto.

Moses Pendleton persegue questo obiettivo da quarant’anni, tanti quanti ne sono intercorsi dalla creazione della sua più straordinaria e fortunata creatura, dalla realizzazione di quella folle quanto geniale idea con cui ha rivoluzionato per sempre il mondo della danza: i mitici Momix.

Lo ammettiamo: il nostro tentativo di essere equilibrati ed imparziali critici davanti ad ogni performance dell’ensemble è destinato a naufragare, essendo stati irrimediabilmente ipnotizzati sin dal primo – ormai lontanissimo – incontro dalle evoluzioni di questo corpo di ballo unico, sudditanza a cui non ci siamo sottratti nemmeno durante la visione del loro nuovissimo spettacolo “Alice”, fior tra i fiori all’occhiello della annuale Stagione della Fondazione Petruzzelli.

Ispirato dalle opere letterarie di Lewis Carrol, Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie, pubblicato nel 1865, ed il suo seguito Attraverso lo specchio, pubblicato nel 1871, questo “Alice” è davvero uno spettacolo fantastico (e sia detto in ogni accezione del termine), talmente ricco di simbolismi da non permetterne la totale acquisizione dopo una sola visione, suntuoso al limite dell’incredibile.
Con le coreografie (all’incirca una ventina) che compongono i due atti (“Nella tana del coniglio” e “Oltre lo specchio”), nonostante ad occhio attento non possa sfuggire l’affiorare di – seppur minimi – dejà vu, Pendleton ci ha nuovamente stregati, conducendoci, grazie alle sue arti magiche, in inediti ed affascinanti universi celati ai più, ma rivelatisi al suo occhio, di certo non timoroso nell’addentrarvisi con tutto se stesso, così come chiede ad ognuno dei suoi magnifici sette ballerini / ginnasti (Heather Conn, Gregory DeArmond, Seah Hagan, Hannah Klinkman, Sean Langford, Jade Primicias, Colton Wall), spingendoli ad impegnarsi oltre i limiti del proprio fisico per le quasi due ore (che sarebbe bastato un solo minuto dello stesso impegno per uccidere un comune mortale nostro pari!) di una pièce curata in ogni minimo particolare; anzi, forse in questo caso come non mai, il lavoro concettuale di Pendleton è chiaro, soprattutto nell’identificazione con Alice, che, nel suo iniziatico cammino, non solo incontra – talvolta anche solo per pochi secondi – i tanti personaggi, dal Bianconiglio alla Regina di cuori, dal Cappellaio matto allo Stregatto, ma ne diventa parte, si trasfigura in loro, mutando, di volta in volta, essa stessa, non solo nel fisico, ma anche nell’animo, nel modo di accostarsi alle sue mirabolanti esperienze di vita.

Per raggiungere i suoi elevatissimi scopi artistici, Pendleton si serve di qualsivoglia espediente e stratagemma, affidandosi ora alle tante trovate sceniche, ora ai fantasiosi vestiti, ora alle fantastiche luci, ora all’inedita fascinazione del mondo digitale, ora alle suggestive musiche (tra cui abbiamo riconosciuto – ed oltremodo apprezzato – brani dei Franz Ferdinand, Ana Tijoux, sino a chiudere con la mitica “White rabbit” dei Jefferson Airplane), e, soprattutto, alla già ricordata perfezione dei corpi dei danzatori, tutti sublimi nel loro inarrestabile flusso di repentine corse bruscamente interrotte, di cadute sospese, di incontri giocosi e scontri irati, di prese azzardate od improvvisamente schivate, sospinti solo dalla continua quanto impertinente sfida alle universali leggi della natura, prima fra tutte quella di gravità.

Teatro Petruzzelli giustamente gremito la sera della prima, con la medesima sorte per tutte le successive sei repliche (anche se consigliamo a tutti di provarci comunque a recuperare un biglietto), da un pubblico osannante, prodigo di applausi a scena aperta ed ovazione finale, con i fanciulloni di ogni età – sopra e sotto il palco – in piedi ad applaudire il genio folle di un uomo che, per una sera, li aveva liberati dalla loro quotidiana prigionia della più cupa ragione.

Pasquale Attolico

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