“Ci troviamo di fronte a un interessante fenomeno: un eroe letterario che gradualmente perde contatto col libro che l’ha prodotto, che abbandona la patria, che abbandona lo scrittoio del suo autore per vagabondare nell’universo dopo aver vagabondato per la Spagna. In definitiva, don Chisciotte è più grande oggi di quanto lo fosse nel grembo di Cervantes. Ha cavalcato per trecentocinquanta anni nelle giungle e nelle tundre del pensiero umano – guadagnando in vitalità e statura. Non ridiamo più di lui. Il suo blasone è la pietà, il suo vessillo la bellezza. L’unica cosa che conta è il suo essere gentile, generoso, puro, solitario e valoroso. La parodia è diventata pietra di paragone.” (Vladimir Nabokov)
“L’uomo non unisca ciò che Dio ha separato.” (Wolfgang Ernst Pauli)
Negli anni – così vicini, eppure così maledettamente lontani – della rivolta giovanile, un piccolo garage o finanche un minuscolo box potevano diventare una cantina, un ritrovo, in taluni casi un locale, in ogni caso un rifugio dove coltivare la propria personalità e, se possibile, il proprio talento, qualunque esso fosse; nei tempi incerti che ci è dato in sorte di vivere, quegli stessi angusti ambienti sono stati eletti addirittura a mini appartamenti, di solito abitati dai “nuovi poveri” (disoccupati, ma anche coniugi separati, lavoratori in assenza di liquidità, pensionati), reietti di una società che non ammette distrazioni e débâcle, seppur momentanee, né tantomeno disobbedienze, ammutinamenti, sollevazioni, insurrezioni, anche se dettati dalla semplice, sacrosanta e determinata voglia di non sentirsi allineati, conformati, omologati. A metà tra la vecchia e la nuova concezione del ristretto spazio, sembra essersi ritagliato un suo intero personalissimo universo Mario, pazzo blogger che comunica con il mondo esclusivamente tramite il suo canale social, che ha votato la sua esistenza ai dettami, ritenendoli applicabili alle leggi della fisica quantistica, di Miguel de Cervantes e del suo Don Chisciotte della Mancia (“uno di quei classici che tutti conoscono e pochi leggono” afferma, sapendo di non mentire), che ha il suo fido e riluttante Sancho Panza in Andrea, giovane già disilluso che accoglie a malincuore le teorie del suo vate, e che, alla fine, si rivelerà essere molto più di un semplice scudiero; una delle – crediamo quotidiane – visite di Andrea, si trasformerà in una totale, definita e, purtroppo, definitiva lezione di vita, che sembrerà concludere la sua tragica parabola nell’incondizionata resa del protagonista, prima che il seme dell’apparente follia del novello Don Alonso Chisciano germogli e dia i sospirati frutti, risvegliando un’indolente e dormiente umanità dal sonno della ragione.
Alessandro Benvenuti (Mario) e Stefano Fresi (Andrea) sono i sublimi protagonisti di “Donchisci@tte”, la pièce di Nunzio Caponio che, nell’adattamento e regia di Davide Iodice e la produzione di Arca Azzurra, è stata, per fortuna del – purtroppo non foltissimo – pubblico presente, inserita nell’ottima annuale Stagione teatrale dell’AncheCinema di Bari, talmente bravi da non riuscire ad immaginare altri due interpreti al loro posto, il primo assolutamente ispirato nell’esporre, con indomita ed indomabile passione, le intricate teorie e l’individuazione dei moderni mulini a vento “nell’appiattimento emotivo, nell’accontentarsi del banale, nella morte dell’etica e della morale” che ha fatto seguito al suo risveglio di coscienza (ci è tornata in mente la famosa pillola di “Matrix”) dopo una oscura vita di opaco impiegato, ed il secondo altrettanto convincente nel tentativo di riportarlo ad una – seppur amara – realtà fondata sui più elementari principi di ragionevolezza.
La sconvolgente confessione finale – che non riveleremo – pone, poi, altri interrogativi e propone, almeno ai nostri occhi ed a nostro modesto parere, un’altra avvincente e – se possibile – ancor più emozionante chiave di lettura dell’intero spettacolo, con il buon Andrea che parrebbe voler cancellare – o, meglio, celare – i segni, già evidentemente presenti in Mario, di quella maledetta patologia, dal nome spigolosamente germanico, che non permette a quanti, all’alba della disillusione, si ritrovano in balia di un’ineluttabile umana senescenza, di vivere un sereno declino della propria esistenza.
Qualunque sia l’accezione che si voglia dare al magnifico quanto ciclopico testo, raccolto in appena novanta frenetici minuti, è palpabile l’iniziale disorientamento del pubblico, che magari alla vigilia si aspettava qualcosa di più grossolanamente e spensieratamente ilare, prima che dal palco giunga una vera cascata di parole ed emozioni che inonda la sala e cattura indissolubilmente anche il più distratto degli astanti, grazie soprattutto all’immensa prova d’attore di Benvenuti e Fresi, quest’ultimo spesosi anche nella sua misconosciuta attività di ottimo musicista (è il compositore del jingle della Rai in onda dal 2010); illuminati dalle luci di Andrea Garbini e perfettamente a loro agio nelle scene di Tiziano Fario e nei costumi di Daniela Salernitano, i due si propongono in una performance che, più che avere i tratti di una semplice messa in scena, ha tutte le peculiarità di una stupefacente partitura musicale, talmente perfetta nell’esecuzione da riuscire a trasmettere, nel commovente e coinvolgente finale, quasi per osmosi all’universo intero (e non solo virtuale) il proprio mantra cavalleresco (“Giuro di non lamentarmi, ma di agire. Giuro di desiderare il bene e il bello per me e per gli altri. Giuro di essere costantemente innamorato.”), infine contagiandolo con quell’anelito anarchico e rivoluzionario che, seppur nella sua acclarata innata vocazione utopistica, dovrebbe spingere ognuno di noi, poco importa se in qualità di Don Chisciotte o di Sancho Panza, ad operare ancora una volta la propria scelta di campo, optando per cercare nell’amore e nella libertà la salvezza dell’uomo e dell’umanità tutta.
Pasquale Attolico