“A che servono gli uomini”: il piccolo gioiello di Iaia Fiastri e Giorgio Gaber rivive nella nuova versione firmata da Lina Wertmüller con Nancy Brilli

A volte mi domando se gli uomini e le donne siano davvero fatti gli uni per gli altri. Forse dovrebbero soltanto vivere in appartamenti vicini e farsi qualche visita di tanto in tanto.” (Katharine Hepburn)

Nella frenetica ed incessante, ma sempre interessante, programmazione del TeatroTeam di Bari, ci ha particolarmente piacevolmente colpiti l’inserimento in cartellone della ripresa di “A che servono gli uomini”, la commedia musicale che Pietro Garinei, rimasto solo già da più di un decennio per la scomparsa del suo sodale Sandro Giovannini, nel 1988 volle fortemente mettere in scena, affidandone la scrittura del testo alla magica penna di Iaia Fiastri, autrice di capolavori assoluti come “Aggiungi un posto a tavola” e “Alleluja brava gente”, mentre Giorgio Gaber, genio inarrivabile e nostro incontrastato Maestro, per cui abbiamo sempre manifestato un’adorazione quasi maniacale, pur non essendo interessato personalmente dallo spettacolo, accettò – per la prima volta nella sua carriera – di comporne le musiche, grazie anche alla presenza in Compagnia della “Signora Gaber” Ombretta Colli nei panni dell’incontrastata protagonista.

Forse anche allo scopo di omaggiare la memoria dei due immensi autori (siamo orfani di Gaber già da diciassette anni, mentre la Fiastri ci ha lasciati solo un anno fa), la divina Lina Wertmüller ha rimesso mano a quel piccolo gioiello, che ha affidato alla acclarata padronanza interpretativa di Nancy Brilli, proponendone una versione rivista ed aggiornata finanche nella colonna sonora, curata da Jacopo Fiastri, figlio di Iaia, che vi ha inserito brani celeberrimi della produzione gaberiana, sebbene non attinenti l’opera teatrale in questione, spesso addirittura successivi in senso temporale.

Ci sia concesso di dire che se il senso del rimaneggiamento wertmülleriano sta tutto in quella perdita del punto interrogativo che troneggiava nella versione originaria, nel lievissimo cambiamento del finale e nella aggiunta di un nuovo personaggio (il modello-gigolò Markus interpretato da Nicola D’Ortona), probabilmente andava fatto qualcosa di più; il tema della fecondazione artificiale – argomento di certo scioccante e destabilizzante nei tardi anni ottanta – appare ormai lontano anni luce in un’epoca come quella che viviamo, in cui il problema non pare più essere se una donna può o non può allevare un figlio in piena autonomia, ma, semmai, se può farlo una coppia gay, decisione che, nella nostra misera italietta amministrata da piccoli e demagogici politicanti, continua ad essere fortemente osteggiata. Ma – lo comprendiamo bene – questo cambio di rotta, invero citato dalla Brilli in un troppo breve passaggio, avrebbe dovuto determinare la variazione dell’intero testo teatrale, rischiando l’incalcolabile perdita di un vero capolavoro di bellezza, leggiadria, ironia, gusto, grazia e classe.

Meglio, quindi, tenersi la pièce così com’è e leggerla come la testimonianza di un incontro di menti sublimi che, ancora oggi, continua a dare lezioni alle nuove generazioni di commediografi, divertendo, coinvolgendo e facendo riflettere il pubblico contemporaneo, grazie anche all’apporto di un cast affiatato e spigliato, che fa da cornice alle gesta di Teodolinda (Nancy Brilli), per gli amici Teo, una vignettista-pittrice, delusa dagli uomini, a differenza della sua amica-modella Samantha (Giulia Gallone), ma ancora desiderosa di essere madre; l’occasione di sottoporsi all’inseminazione artificiale e rimanere incinta le si presenterà grazie al suo vicino Giovanni (Igi Meggiorin), strampalato scienziato e compositore di musiche per mucche, ma poi le toccherà fare i conti con la curiosità di conoscere il donatore del seme, che parrebbe essere tale Osvaldo (Daniele Antonini), impenitente scapolone tombeur de femmes che vive ancora con la mamma Carmela (la splendida Fioretta Mari), dando così avvio ad una serie di situazioni di gradevolissima comicità che, proprio quando sembra giungere alla stessa conclusione di una disillusa Erica Jong (“Uomini e donne, donne e uomini: non funzionerà mai!”), svolta in modo del tutto inaspettato ed insospettabile verso un finale ad effetto, con una nuova dichiarazione di ritrovata autonomia femminile, che, in questi tempi oscuri, funestati da inesauribili femminicidi, non è poca cosa.

Pasquale Attolico

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