“Le zitelle sono delle egoiste sfacciate: vogliono il tepore del letto tutto per sé.” (Wilhelm Mühs)
Honoré de Balzac affermava, in modo più che tranchant, che “quando c’è una zitella in casa, i cani da guardia sono inutili”; eppure il drammaturgo non aveva mai incontrato le sorelle Rosaria ed Addolorata, né dal vivo né nei meandri della sua geniale mente, dato che le due sono state partorite dalla fantasia di Gianni Clementi che ne ha fatto le protagoniste del suo testo teatrale “Sugo finto”, lo stesso che, trasposto nei vicoli napoletani, diventa “’E vongole fujute”, da cui il regista Pierpaolo Sepe ha tratto “Le Signorine”, la produzione Nuovo Teatro con Artisti Riuniti, che sta – già dalla precedente Stagione – facendo registrare in tutta Italia, Bari compresa, dove è giunta grazie all’inserimento nell’annuale cartellone della Stagione di Prosa del Comune di Bari e del Teatro Pubblico Pugliese, un successo straordinario, in larghissima parte dovuto alla presenza sul palcoscenico di due Regine del miglior Teatro, Isa Danieli e Giuliana De Sio.
Nel centro di Napoli, due sorelle, entrambe zitelle, entrambe zoppe, l’una alla gamba destra e l’altra alla sinistra, a causa della non curata infantile poliomielite, vivono – e si lasciano vivere – in una vecchia casa sgarruppata (perfettamente ricostruita nelle scene di Carmelo Giammello, illuminate dalle efficaci luci di Luigi Biondi) attigua alla storica merceria che gestiscono, resistendo agli attacchi della dilagante economia cinese: Rosaria, la più anziana, arcigna, inospitale, anche un po’ razzista, avara sino allo spasimo, al punto da possedere un solo abito (qui negli adeguati e consoni costumi di Chiara Aversano) tanto per le ricorrenze gioiose che per quelle funebri, e da concepire un sugo di vongole senza vongole (da cui il titolo originario della pièce), non chiede più niente alla vita, ma pare provi assoluto piacere solo nel ricoprire di insulti ed angherie la più giovane e sottomessa Addolorata, sognatrice indefessa, una di quelle – avrebbe detto Laurent Gouze – “che, ogni sera, guardava due volte sotto il suo letto: la prima volta per paura che ci fosse un uomo nascosto là sotto, e un po’ più tardi per paura che non ci fosse affatto”, ossessionata dalle telenovele e vittima delle truffe televisive, prime fra tutte le profezie di fatiscenti cartomanti (simboleggiati dall’esilarante cameo in sola voce del nostro Sergio Rubini). L’invito al matrimonio di un cugino con la badante di turno, ovviamente venuta dall’est, giungerà a sconvolgere gli squilibrati equilibri della coppia, sino alle estreme irrimediabili conseguenze, che muteranno per sempre le stesse esistenze delle due.
In realtà, non possiamo non affermare che al regista – in attuazione di un vecchio invito pubblicitario – piaccia vincere facile, non solo per la presenza in scena delle due divine interpreti, ma anche per essersi rifatto ad un vero e proprio stereotipo del teatro di tradizione ed, in particolare, della cultura partenopea, presente forse in decine di opere, dalla mitica “Scortecata” di Giambattista Basile (che ci tornava in mente di continuo durante la messa in scena, anche per la pressoché perfetta aderenza con il drammatico – se non macabro – ed asfissiante finale – che, naturalmente, non sveleremo -), passando per il Teatro dei De Filippo, giù giù sino ad Annibale Ruccello, il mai abbastanza compianto commediografo, attore e regista di Castellammare di Stabia, che ha avuto come splendide icone e muse proprio le due odierne attrici (la Danieli per il suo “Ferdinando” e la De Sio per “Notturno di donna con ospiti”).
In ogni caso, a Sepe va senza dubbio il merito di aver costruito due figure assolutamente confacenti alla realtà, in cui gran parte – se non la totalità – degli spettatori che affollavano il Teatro Piccinni di Bari, di fatto alla sua reale riapertura dopo la fantasmagorica festa cittadina inaugurale dei giorni scorsi, potevano riconoscere un proprio parente o conoscente, o, finanche, riconoscersi; questo espediente rende ancor più coinvolgente l’intera commedia, tanto che si ride davvero tanto di pancia, soprattutto nel primo atto, grazie anche ad un linguaggio non proprio oxfordiano, e ci si abbandona, infine, ad una profonda ma sana malinconia, che diventa finanche commozione negli ultimi secondi dell’opera, in quell’incantato ritorno ad un ancestrale passato (o futuro?), che – finalmente – sembra concedersi un momento di complicità e di affetto prima della definitiva chiusura del sipario.
In questo serpeggiante sentimento di identificazione, si elevano ad una altezza irraggiungibile le magistrali prove attoriali delle due protagoniste, assolutamente degne dell’ovazione che le accoglie al termine di quella che possiamo, a ragione, definire una preziosissima lezione di recitazione: due artiste in assoluto stato di grazia, due leonesse, sublimi in ogni singolo istante delle due ore di spettacolo, tanto nella parte più squisitamente ilare e goliardica, quanto nel citato commovente finale; anzi, forse proprio nel momento in cui la pièce si fa drammatica, colma di una straziante poetica che delinea il pensiero universale su di una vecchiaia che non appare più come un dolce declino dell’esistenza, bensì come un incubo, uno spettro che terrorizza il genere umano, la loro recitazione raggiunge il livello più alto, disegnando in modo eccelso la più terribile parabola, quella che – purtroppo – accomuna quanti, all’alba della disillusione, si risvegliano dal sogno accarezzato per una vita intera, scegliendo di percorrere l’unica possibile via di fuga da una indecente, irrimediabile, ineluttabile, intollerabile, insopportabile umana senescenza.
Pasquale Attolico