“Io volevo dire onestamente alla gente: “Date uno sguardo a voi stessi e vedete come grame e desolate sono le vostre esistenze!” L’importante per me è che la gente si renda conto di ciò, perché, quando lo farà, riuscirà poi a crearsi un altro e migliore modo di vita. Io non vivrò abbastanza per vederlo, ma so che esso sarà completamente diverso dal nostro. E finché questo differente modo di vita non diventerà una realtà, io continuerò a dire alla gente: “Per favore, rendetevi conto che la vostra esistenza è grama e desolata!” Non mi pare che ci sia motivo di piangere per questo.” (Anton Čechov da una lettera ad Alessandro Tikhonov)
“Ma quali figli di puttana? Siamo figli di Čechov!” (da Sempre meglio dei Linea 77)
Per mettere in scena “Il Gabbiano”, il capolavoro di Anton Čechov, ci vuole un coraggio da leoni, da sempre, sin dallo sfortunatissimo debutto al Teatro Aleksandrinskij di San Pietroburgo nel 1896, un insuccesso tale da far pensare al trentacinquenne autore di lasciare la drammaturgia; in Italia, poi, la sola idea di affrontare il testo sembra preclusa dal timore di doversi confrontare con la storica regia di Orazio Costa (che molti ricordano e citano per averne intravisto la registrazione televisiva della Rai del 1969) che annoverava nel cast Gabriele Lavia, Ilaria Occhini, Giancarlo Sbragia, Anna Proclemer e Gianrico Tedeschi.
Improbabili ed innaturali confronti con il passato a parte, crediamo fermamente che nessuno possa mettere in dubbio le infinite difficoltà che si preparino ad affrontare quanti decidano di accostarsi ad un’opera che non solo ha indiscutibilmente segnato la svolta epocale fra il teatro dell’Ottocento e quello del Novecento, ma che, probabilmente più di qualunque altra, contiene il codice della scrittura del drammaturgo russo, essendo equiparabile alla quintessenza del suo spirito e della sua stessa sfortunata esistenza; c’è, infatti, molto di Čechov in tutti i protagonisti della vicenda, in primo luogo nelle due figure di scrittori che vi compaiono, l’adolescente Konstantin Gavrilovič Treplev, con le sue infinite lotte intestine, e il maturo e affermato Boris Alekseevič Trigorin, non meno in conflitto con se stesso ma più avvezzo alla autoassoluzione, personaggi abbinati in modo simmetrico seppur in opposizione, se non in collisione, alle due figure femminili di attrici (un’altra nota autobiografica dello scrittore), la acerba debuttante Nina Michailovna Zarečnaja, vittima di un’adolescenziale passione per il teatro, amata da Konstantin ma infatuata di Boris, compagno di Irina Nikolaevna Arkadina, madre riluttante di Kostantin, che, al contrario, ha già un grande avvenire dietro le spalle: sono queste, con tutta probabilità, le quattro pedine più importanti sulla scacchiera di una trama dagli intrecci netti ma complessi, che si dipana per ben quattro atti in cui sembra a prima vista non accadere mai nulla, “e questa – afferma Simon Carmiggelt – è la maniera più bella di scrivere: scrivere senza riempire tutti i buchi. In tal modo si considera il lettore un adulto: <<eccoti qua il materiale>>, gli si dice; <<tu stesso devi essere in grado di percepire cosa hai da dire>>”.
Con ogni probabilità, il primo a riconoscere le potenzialità dell’opera di Anton Čechov fu Konstantin Sergeevič Stanislavskij, l’attore, regista ed insegnante, teorico del teatro ed ideatore del famoso metodo di recitazione che porta il suo nome, cui si deve, tra l’altro, proprio il successivo successo de “Il Gabbiano”, che lui stesso portò in scena tre anni dopo il clamoroso flop; Stanislavskij non solo comprese che il senso di quelle pagine andava decifrato tra le righe, ma, anche e soprattutto, afferrò quel che, pur essendo sotto gli occhi di tutti, restava ben celato anche allo stesso autore, vale a dire che quell’opera, che Čechov riteneva avesse “poca azione e un quintale d’amore”, fosse in realtà molto ricca di eventi, però “non nello sviluppo esterno, ma in quello interno”.
Il teatro cechoviano, apparentemente intriso di pura banalità, in realtà non si occupa del casuale e del particolare, ma della nostra natura, dell’essenza stessa dell’animo umano, di cui giunge a scandagliare le più oscure profondità; lì dove pare che nulla accada, che nulla si realizzi, si attui e, soprattutto, si manifesti, con i personaggi immobili, condannati a restare nel limbo delle possibilità, dell’incerto, del non detto, del supposto, al contrario tutto si compie, ed è già tutto lì, scritto in quei fogli, eppure – come aveva compreso Stanislavskij – “intraducibile a parole, ma nascosto sotto di esse o nelle paure, negli sguardi di intesa tra gli attori, nella emanazione del loro sentimento interiore”; così, mentre la quasi totale assenza d’azione all’esterno ci blandisce, ci disorienta, ci confonde, il magma di sensazioni che nasce, quasi inavvertitamente, sul palco e dentro noi, ci cattura, ci afferra l’anima, se ne impadronisce e la contamina indissolubilmente.
Licia Lanera ha magistralmente risolto questo annoso dualismo, mettendo in scena una versione de “Il Gabbiano”, per nostra fortuna inserita nel cartellone della annuale Stagione di Prosa del Comune di Bari e del Teatro Pubblico Pugliese per due serate che hanno fatto registrare altrettanti sold out del Teatro Petruzzelli, con cui ha dimostrato come sia ancora possibile riuscire a leggere l’opera cechoviana, qui ridotta, nella traduzione di Gerardo Guerrieri, in nome della più spietata ma adeguata purezza, a due atti, con grande accuratezza, rispettandola più ideologicamente che filologicamente, attraverso la lente dell’Arte e della Cultura del presente, di cui la Lanera è, senza dubbio, tra le più fulgide rappresentanti.
Grazie alle scelte operate, è finalmente possibile riassaporare tutta la modernità del messaggio originale, con quel tema predominante che si può definire “carenza di comunicazione”, riformulato in modo così dolente ed attanagliante da far pensare al miglior cinema di Woody Allen e, perché no, del suo – e nostro – maestro Ingmar Bergman; in tal modo, Čechov emerge non solo come nostro contemporaneo, perfetto indagatore della spietata crudeltà di cui è capace l’umanità di ogni tempo ed ogni era, ma anche in tutta la sua deflagrante forza poetica, in piena aderenza con quanto affermava Lorenzo Gigli: “l’importante è che, comunque interpretato e recitato, il teatro di Cechov è teatro di poesia”.
Ben supportata dalle musiche originali di Qzerty, dai costumi di Angela Tomasicchio e dalla scarna ma efficacissima scenografia di Riccardo Mastropasqua, la sua regia va oltre i diktat di Stanislavskij, di fatto rappresentando le due anime dell’opera ben distinte, affidando al primo atto la rappresentazione di quella esteriorità di cui si diceva poc’anzi, fotografandola nella – falsamente ideale ma in realtà soffocante – immobilità fisica e morale di una tenuta di campagna in riva a un lago, la stessa che affiora dallo splendido dipinto sullo sfondo, il “Paesaggio con la ninfa Egeria” di Claude Lorrain, ed al secondo tutta l’interiorità, al punto che gli attori saranno costretti ad una – in pratica – totale immobilità sotto un’incessante nevicata, padroni solo della loro voce come mezzo per comunicare, vicinissimi eppure estranei, alieni, passeggeri di una notte che pare infinita, e che invece, come suggerisce Tiziano Ferro nella hit che chiude la pièce, potrebbe a ragione essere “l’ultima notte al mondo”.
In questa – già di per sé spiazzante – dicotomia, affiorano pezzi della straordinaria storia artistica della Lanera, impressi nel ricordo di chi scrive, con forti collegamenti – come era giusto che fosse – con il primo capitolo di questa trilogia teatrale (“Guarda come nevica”) dedicata agli autori russi, quel “Cuore di cane” di Bulgakov che, a ben vedere, già ne anticipava la prospettiva; in realtà, lo spettacolo parte dalla parola, con una toccante lettura di Vincent Longuemare – che tutti noi apprezziamo come splendido architetto delle luci – a sipario chiuso della lettera che un deluso Čechov inviò a sua moglie a seguito della prima osteggiata messa in scena della sua opera, ed alla parola torna, con quel secondo atto che, nella sua accecante bellezza, è assolutamente indescrivibile sulla fredda pagina telematica.
Il lavoro, poi, con gli straordinari attori che compongono la Compagnia che porta il suo nome, la Lanera pare averlo affrontato come fosse una esperta direttrice d’orchestra, capace di dotare di proprio suono ogni personaggio, di connotare la loro stessa esistenza in una nota unica e personalissima che, fondendosi con le altre, giunge a creare una melodia compiuta, finita, risolta nella sua perfezione, esperimento quanto mai riuscito nel citato secondo atto; così, le parole stesse di Čechov sembrano accogliere una partitura musicale, una composizione orchestrale, un totale equilibrio che raggiunge il risultato più alto quando tutto si fonde nello spartito del testo teatrale, in quell’unico motivo che ci cattura sino alla commozione.
Giulia Mazzarino nei panni di Nina Michajlovna Zaracnaja, Jozef Gjura in quelli di Konstantin Gavrilovič Treplev, Vittorio Continelli / Boris Alekseevic Trigorin, Alessandra Di Lernia / Masa, Marco Grossi / Piotr Nicolaevic Sorin, Fabio Mascagni / Evgenij Sergeevic Dorn e Mino Decataldo / Semen Semenovic Medvedenko, oltre – ça va sans dire – alla Lanera nel ruolo di Irina Nikolaevna Arkadina, toccano spesso vette irraggiungibili (soprattutto – occorre dirlo – la Mazzarino del secondo atto), originando, attraverso la genesi dell’opera stessa ed una profonda riflessione sul senso della vita artistica o, meglio, sull’agire artistico in sé, una performance strepitosa, di grande teatro.
A margine del nostro scritto, ci sia consentita una piccola digressione che esula – in tutti i sensi – dall’ambito artistico.
Quella che avete appena letto è la cronaca della replica tenutasi al Petruzzelli la sera successiva a quella Prima che – inutile nasconderlo – aveva fatto sì che la Compagnia Licia Lanera fosse investita di commenti tiepidi, se non addirittura negativi; ebbene, la visione dello spettacolo ha ancor più rafforzato in noi la convinzione che, salvo ogni giusta e motivata valutazione personale sulla messa in scena, le reazioni sfavorevoli abbiano risposto più a logiche private che a giudizi estetici, insomma che, in altre parole, ci sia stato chi non abbia perso l’occasione di attaccare uno dei maggior talenti teatrali che gli ultimi decenni abbiano partorito, avendo finalmente la possibilità – a dire dei detrattori – di celarsi dietro una presunta difesa del teatro di tradizione.
Ma, al netto dei possibili problemi tecnici (cose che capitano nelle migliori famiglie, potremmo argomentare), se parliamo di tentativo di distacco dal passato, non era forse proprio il capolavoro di Čechov, con quel suo ossessivo invito a cercare forme nuove per il teatro, il “luogo” più giusto per sperimentare, per creare un linguaggio che, infine, non si preoccupasse nemmeno di uniformarsi a forme vecchie o nuove, ma che sgorgasse liberamente dall’anima? Cosa ha impedito – se non i supposti preconcetti – agli spettatori del Petruzzelli di estraniarsi dal ritmo caotico che la vita ci obbliga a tenere, per entrare nel mondo pensato da due giovani, entrambi poco più che trentacinquenni, l’uno nel 1895 e l’altra nel 2019?
Lo confessiamo: la caccia alle streghe non ha mai incontrato i nostri favori e, nel caso di specie, non riteniamo faccia onore ad un pubblico avvezzo al teatro come quello di Bari, che dovrebbe per statuto difendere i suoi talenti, invece di lasciarsi andare – ci riferiscono anche durante la performance – a commenti disdicevoli; meglio sarebbe stato, a nostro modesto parere, assistere in silenzio allo spettacolo, certi che, al termine, si sarebbe potuto discutere della sua riuscita o meno, anche in base ai gusti personali, ma comunque si sarebbe guadagnata l’uscita del teatro certamente arricchiti, perché come dice Raymond Carver, “se si sta in silenzio e si ha la mente sgombra e si è in pace con se stessi e con tutto, si può stare stesi al buio e sentire la neve che cade”.
E vi assicuriamo che ha un rumore bellissimo.
Pasquale Attolico
foto di Manuela Giusto tratte dalla pagina Facebook della Compagnia