“Coraggio, soprattutto a livello individuale, è anche volontà civile e responsabile di non rassegnarsi all’incalzante degrado morale. E infine quella buona cosa che consiste nel saper pagare sulla propria pelle i propri errori: virtù assai rara oggigiorno ma per questo ancor più apprezzabile. C’è una particolare scelta di stile di vita che io considero pienamente eroica, ed è questa: vivere il proprio ruolo sociale con coerenza, responsabilità e dignità. Coerenza non è cecità, testardaggine, limitatezza, ma consapevolezza delle proprie scelte e accettazione delle responsabilità che ne derivano. È chiarezza di intenti e fermezza di carattere. Rimanere uomo coerente con i propri princìpi e mantenersi individui liberi dal compromesso è «eroismo».”(Walter Bonatti)
Non crediamo di esagerare se affermiamo che Luca Argentero potrebbe permettersi di portare in scena una pièce teatrale restando fermo sul palco per novanta minuti, magari raccontando qualche aneddoto o barzelletta, finanche senza proferire parola, lasciandosi contemplare dal suo sterminato popolo di adoranti ammiratrici; se non ci credete, avreste dovuto dare una preventiva occhiata all’orda meravigliosa di donne, in evidente estasi emozionale, che gremiva (con buona pace dei “soli undici uomini presenti”, come lo stesso Argentero affermerà durante i ringraziamenti finali) il TeatroTeam di Bari per la tappa locale di “È questa la vita che sognavo da bambino?”, il monologo partorito dall’ottima penna di Gianni Corsi, che – lo ammettiamo – proprio in virtù di questi presupposti, ci ha piacevolmente sorpresi, al punto dal non poterci esimere dal plaudire alla coraggiosa scelta dell’attore torinese, ma anche dello stesso TeatroTeam che, aprendo la sua nuova Stagione, che sarà ufficialmente inaugurata nei prossimi giorni con l’eccezionale “Solo” di Arturo Brachetti, ha, di fatto, nuovamente dichiarato l’incessante volontà di perseguire il proprio innato intento di coniugare qualità e consensi.
“Impossibile!”: quando, ancora in penombra, Argentero attacca la sua lunga dissertazione con questa parola, ha già, in pratica, rivelato il senso di tutto lo spettacolo, costruito su quella voglia di andare oltre i propri umani limiti, quel desiderio di sfidare l’ignoto, quel bisogno di ipotizzare imprese che si credono irrealizzabili e, “nel dubbio” – come spesso ripete -, attuarle, il tutto spiegato senza soluzione di continuità attraverso il racconto delle incredibili vite, vissute senza alcuna mediazione ed in totale assenza di formalismo, di tre illustri sportivi italiani, tre uomini prima che tre campioni: Luigi Malabrocca, detto Luisin, arrivato coscientemente ultimo a svariati Giri d’Italia per accumulare i premi di consolazione riservati alla Maglia Nera; Alberto Tomba, il guru dello sci moderno, il bolognese che amava la neve, le cui esaltanti vittorie sono pari solo alle infinite bizzarre insulsaggini accumulate fuori dalle piste; Walter Bonatti, lo scalatore per eccellenza che ha dovuto, per anni, subire l’onta dell’ingiusta infamia riguardo la scalata del K2. “Tutto qui?” si chiederà qualcuno. Nient’affatto. Grazie anche all’ottima regia di Edoardo Leo, la cui presenza è addirittura palpabile per quella sua capacità, che abbiamo imparato a riconoscere ed apprezzare, di instillare profondità e spessore in ogni suo lavoro, senza mai dimenticare una buona dose di ironia, lo spettacolo diventa prima una fotografia nitida, se non una precisa radiografia, in cui è possibile rintracciare, pur nelle evidenti differenze delle tre vite descritte, una medesima fisiognomica, i riconoscibilissimi tratti somatici di un’italianità, l’analisi di un gene che – forse – ancora oggi ci contraddistingue nel mondo, per poi tramutarsi in anelito, in grido di dolore e ribellione che, soprattutto grazie alle parole del Bonatti declamate a gran voce da Luca, si fa politico, nella accezione più alta del termine, se non addirittura universale, nella speranza o – magari – nella certezza che sia possibile un diverso e più alto punto di vista, un’altra via per l’umanità, una rinascita.
Ed è assolutamente giusto che questa aspirazione finisca con il mescolarsi con la vita stessa di Luca Argentero, da sempre in costante evoluzione artistica, passato a pieno titolo – e se vogliamo in breve tempo – dalle stanze del “Grande fratello” alle opere dei nostri migliori registi sino alle sale dei teatri di tradizione, senza mai indietreggiare nella ardimentosa e – di questi tempi – per nulla scontata determinazione di non retrocedere di fronte alle sfide, ma semmai, “nel dubbio”, affrontarle, peraltro vincendole, come ha fatto con questa messa in scena in cui la sua arte di fine, delizioso ed intelligente affabulatore si mostra in tutte le sue – crediamo non ancora del tutto espresse – talentuose possibilità, in un crescendo recitativo sempre di gran classe, anche quando si concede un minimo di immancabile gigioneggiarsi, stimolato dall’osannante pubblico femminile di cui si è già detto, mostrandosi nudo (ma non come vorrebbe l’assatanata platea), rivelando le sue aspirazioni ed il suo impegno tanto come artista quanto come uomo (ed è bello che, sugli applausi finali, trovi il modo di parlare della sua meritoria iniziativa del caffè sospeso: https://www.1caffe.org/), ben conscio che, per dirla ancora con Bonatti, “è quando sogni che concepisci cose straordinarie, è quando credi che crei veramente, ed è soltanto allora che la tua anima supera le barriere del possibile”.
Pasquale Attolico