
“Non è per tutti, questa vita, andare avanti nel modo in cui l’abbiamo fatto noi. Dieci anni sono un lungo cammino. Ma cosa fai se hai ancora voglia di fare musica? Vuoi stare nella stessa stanza per cinquant’anni con le stesse identiche persone, la stessa identica conversazione, la stessa identica sensazione? Nessuno ti è riconoscente per nulla. Persone migliori di noi sono cadute, persone migliori di noi non hanno nemmeno avuto la possibilità di risalire. Una cosa che sapevo era che potevo smettere di essere uno dei Simple Minds, ma non potevo smettere di essere Jim Kerr. Quindi ci siamo alzati e abbiamo suonato, e questo ci ha portato qui.” (Jim Kerr)

La notizia è che i Simple Minds sono tornati e sono più vivi e vegeti che mai, come ha potuto appurare lo sterminato popolo che ha accolto la band sul Lungomare di Bari; anzi, lasciatemi subito dire che era da tempo che non assistevamo ad un concerto bello, convincente, trascinante come questa tappa del loro “Global Tour” inserita nello strabiliante cartellone del “Locus Festival 2024” che ora abbandona il capoluogo barese per riempire altre piazze ed altri palcoscenici pugliesi. Una performance che ha visto il gruppo tornare ai livelli altissimi cui ci ha abituati fin dagli esordi, finanche recuperando una certa spontaneità dei primordi, in passato parzialmente immolata sull’altare della perfezione estetica, con la qualità inespugnabile di sempre e la innata caleidoscopica inclinazione ad ideare, realizzare ed – ancora oggi – affinare un personalissimo universo di suoni e colori, in cui trovano posto melodie classiche in perfetta commistione con echi provenienti da ogni angolo del globo, sonorità ibride in un incessante rincorrersi di stili in cui, naturalmente, è il rock a farla da padrone.

I Simple Minds sembrano ancora (o di nuovo) innamorati della loro idea di fare musica ed il set risente in senso positivo di questa nuova ventata di freschezza, della rinata voglia di giocare e di (ri)mettersi in gioco: Jim Kerr, anche se la sua voce ora è più calda che potente, è sempre lui, capace di tenere in pugno la platea per tutta la serata, muovendosi come uno spiritato ed esprimendosi in uno strano slang a metà tra l’anglosassone ed il siciliano; Charlie Burchill replica in modo eccelso i riff di chitarra che hanno fatto la fortuna della band; Sarah Brown ha una voce ed una presenza scenica da splendida regina della notte; la giovane Cherisse Osei forse non eguaglia Mel Gaynor alla batteria, ma ha energia da vendere e picchia sulle pelli come poche/i; il basso di Ged Grimes ha un groove da pazzi e forma un tappeto sonoro davvero invidiabile, cui dà il suo apporto anche Gordy Goudie alle chitarre.

La selezione proposta in poco meno di due ore di concerto, poi, abbracciando tutta la discografia della band di Glasgow era una vera delizia per i nostri padiglioni auricolari, trovandovi posto gran parte dei loro classici, tutte gemme di incommensurabile splendore: molto materiale tratto dal capolavoro “New Gold Dream (81-82-83-84)”, tra cui la title track, “Promised you a miracle”, “Glittering prize” e la splendida “Someone somewhere in summertime”, ma anche brani dal primissimo periodo come “This fear of Gods”, “Love song” e “Theme for great cities”, che ben si mescolavano con i successi planetari di “Waterfront”, “Mandela day”, “Let there be love”, “Sanctify yourself” sino ad arrivare alle immancabili “Don’t you (forget about me)” e “Alive and kicking” che facevano scoppiare il pubblico del Locus. Tutto questo e molto altro fa dei Simple Minds ancora delle perfette menti pensanti, artisti indispensabili, emotivamente coinvolgenti, forti di un enorme bagaglio tecnico che, nella notte barese, abbiamo ritrovato incredibilmente integro, pulsante, vitale.

In tutto questo risplendere c’è però un momento che più di ogni altro si è installato nella nostra memoria per non abbandonarla più, un brivido infinito che ci ha scossi nel profondo, vale a dire la sublime versione di “Belfast child” che Jim canta da leader indiscusso, con voce roca, cruda, quasi soffocata, che emoziona sino alle lacrime; se, come afferma Cesare Veronico – con parole che sottoscriviamo e facciamo nostre -, “ai primi ‘80 nella New Wave, tra le band esordienti, Psychedelic Furs erano la promessa, U2 l’energia, The Cure il culto, The Sound la poesia, Tuxedomoon l’avanguardia, Bauhaus il lato oscuro, Siouxsie l’ipnosi, Joy Division la sacralità, New Order l’elettronica e i Simple Minds la speranza di un’intera generazione”, allora il senso di quell’attesa, di quell’impeto, di quel desiderio, di quel sogno, di quell’illusione, è tutto in questa “Belfast child” che conquistò i nostri cuori ben prima delle confessioni cinematografiche dell’adolescente Kenneth Branagh e che ora la band angloscozzese consegna in modo definitivo a noi ed all’eternità.
Pasquale Attolico
Foto di Lidia Caldara e Simona Moretti