Film da (ri)scoprire: “Anatomia di una caduta” di Justine Triet. Il successo di una moglie, un delitto imperdonabile.

Inizierò a parlare del film parlando di un altro film. Ai David di Donatello 2024, nonostante le numerose candidature, il film “La Chimera” di Alba Rohrwacher è rimasto a secco di statuette. Il riconoscimento più importante è arrivato da una donna, che ha ritenuto quella di Rohrwacher l’unica regia davvero europea che si potesse annoverare nella rassegna. E quella donna è Justine Triet, regista di “Anatomia di una caduta”.

Di premi ne ha vinti a bizzeffe, Triet, a partire dalla Palma D’Oro, fino all’Oscar per la miglior sceneggiatura originale, ed effettivamente di sceneggiature così non se ne vedono tutti gli anni, nemmeno agli Oscar. La storia è quella di Sandra, interpretata dalla strepitosa Sandra Hüller, che vive in uno chalet di montagna con suo marito Samuel, suo figlio Daniel, cieco, e il cane Snoop, interpretato da Messi, la vera star del film per un’interpretazione al limite dello spiegabile.

La vita della famiglia trascorre in un quieto vivere che tanto quieto non è, fino a quando Daniel non rinviene il cadavere di Samuel, caduto da una finestra al piano di sopra.

È allora che inizia la parte più interessante del film, un dramma famigliare si trasforma in un legal thriller che viviseziona la vita matrimoniale, a partire dal successo di Sandra come scrittrice, un successo mal sopportato da Samuel, al punto di rendere molto sottili i confini tra apparente suicidio e lite scatenante. Il delitto peggiore di Sandra, al di là di quello che è stato del marito, sembra essere proprio il successo. Non importa se Samuel si è suicidato o è stato buttato di sotto, qualsiasi cosa sia, la colpa è della moglie, che non ha chiesto il permesso per farcela nella vita.

Ad acuire l’incomunicabilità nella vita sociale e di coppia, la recitazione di Hüller, che dal francese passa all’inglese, lingua madre di Sandra, creando incomprensioni e malintesi nelle traduzioni da una lingua all’altra e rendendo il processo ancora più accidentato. Anche i movimenti di camera nell’aula di tribunale, la soggettiva usata con ossessione, ripercorrono gli indugi e i ripensamenti negli spostamenti dei celebranti il processo.

Vederlo è un esperimento sociale: il finale del film è deciso dalle spettatrici e dagli spettatori, non serve spoilerarlo, ciascuna e ciascuno vedrà la realtà che crede, ponendo il proprio giudizio avanti a quello della Magistratura. Fuori dal cinema, il film avrà almeno due finali. Un po’ come la vita, in cui ciò che succede spesso altro non è che il riflesso degli occhi altrui.

Beatrice Zippo

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