Appesa per il collo al cappio della speranza: così la vita da ergastolano in “Fine pena ora”, la pièce di Elvio Fassone, per la regia di Simone Schinocca e l’interpretazione di Salvatore D’Onofrio, Costanza Maria Frola e Giuseppe Nitti, andata in scena al Teatro Kismet di Bari

Una corda può voler dire molte cose: può legare il corpo di una persona, tirarla può impegnare due squadre in un gioco di forza estenuante quanto motivante. La corda si può spezzare, annodare, sciogliere. Era una specie di corda, quella che le Moire della mitologia scorrevano e tagliavano per determinare il fato e la fine della vita di ogni singola persona. La Moira della giustizia può rendere difficile il filare della corda della vita, fino a determinarne una fine senza una morte, che si chiama ergastolo. Per qualche detenuto la corda può costituire la fuga, dall’esito incerto, verso la libertà. In Italia, per 23 detenuti, dall’inizio del 2024, quella corda ha rappresentato la fine della pena, la fine della vita, la fine di tutto.

Al centro della scenografia le corde come sbarre di una cella in “Fine pena ora”, lo spettacolo di Elvio Fassone, tratto dal suo omonimo epistolario autobiografico, edito da Sellerio. La regia e l’adattamento sono a cura di Simone Schinocca, sul palco Salvatore D’Onofrio, Costanza Maria Frola e Giuseppe Nitti. La produzione è di Tedacà – Teatro Stabile di Torino in collaborazione con Festival delle colline torinesi. Lo spettacolo rientra nel cartellone 2023/2024 “Bagliori” dei Teatri di Bari a cura di Teresa Ludovico e arriva per il domenicale del Teatro Kismet dopo il sabato a Molfetta. Il trattamento cinematografico a opera di Luca Zingaretti non ha visto mai la luce, laddove il tema ha visto un notevole successo di pubblico negli anni recenti: da “Ariaferma”, il panopticon di Saverio di Costanzo, fino a “Grazie ragazzi”, il remake del remake del remake a regia di Riccardo Milani con Antonio Albanese, nelle sale l’anno scorso.

Elvio Fassone, il Giudice della pièce, è un magistrato ed ex componente del Consiglio Superiore della Magistratura e, all’indomani della sentenza che nel 1985 ha condannato il ventisettenne Salvatore all’ergastolo, nell’ambito di un maxiprocesso per mafia, decide di inviargli un libro, “Siddharta” di Hermann Hesse, come allegoria dell’ergastolo, in cui non vi è Samsara né Nirvana. Poco a poco, tra giudice e detenuto si instaura una corrispondenza che dura ventisei anni, una vita che cambia entrambi, partendo da una rivelazione, semplice quanto tagliente: Salvatore, rivolgendosi al giudice, impartisce la lezione che sarà la svolta, “se suo figlio nasceva dove sono nato io, adesso era lui nella gabbia”. Sullo sfondo, Frola interpreta il mondo di fuori, i secondini, la fidanzata Rosi, il sogno di un matrimonio, un mondo che con quello del carcere ha una specie di interazione in cui il dentro e il fuori possono occupare lo stesso spazio, per un tempo limitato però, senza mescolarsi mai.

A tale chimica crudele contribuisce il sistema stesso delle carceri, in cui chi è dentro continua a dover scappare per tutta la vita, per i trasferimenti, per la mancanza di misure strutturali, per una mentalità secondo cui sono rei di essere detenuti, e la beffa è che ciò accade soprattutto quando una parvenza del fuori spunta all’orizzonte.

A uno a uno, i nodi dei giorni in carcere si sciolgono, e la cella si discinge dalle sue sbarre. La promessa della semilibertà si fa ogni giorno più vicina, un permesso alla volta, una lettera alla volta, mentre i mesi e i carceri scorrono tutti uguali.

Ma l’ho appena scritto, il sistema è fatto per trattare il detenuto come un colpevole, e, sebbene formalmente la tortura sia un reato, spesso lo scopo involontario del gioco (visibile così per noi che lo vediamo da fuori) è tantalizzare i detenuti con la promessa di un lavoro, di una famiglia, di una vita normale, per poi spazzare tutto via con la firma su un foglio. Di fatti, questo non è solo un racconto e un coming of age tardivo, o una denuncia dello stato delle carceri, da parte di entrambi i lati di questa vicenda, ma una raccolta di interrogativi che non hanno una risposta: chi sta rieducando chi? Chi rischia di più in questa che non è una strana amicizia e nemmeno una mera corrispondenza? Che significato ha la parola stessa “corrispondenza” in questa storia?

La speranza non basta quasi mai. Quell’ultima corda, cui aggrapparsi può diventare l’unico atto di liberazione se mai ci sarà, qualsiasi esso sarà.

P.S.: i dati sulle diverse incidenze delle recidive tra chi svolge un lavoro da detenuto e chi non lo svolge sono impietosi. I dati CNEL parlano, a fine 2022, rispettivamente del 2% e del 68%. Pensiamoci, quando parliamo di dignità per le ultime e per gli ultimi. Pensiamoci andando oltre le immagini, quando vediamo un film.

Beatrice Zippo
Foto dal sito e dal profilo Facebook di Tedacà

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