L’ancestrale, il grembo, il dark side: “Madre” del Teatro delle Albe affascina il pubblico del Teatro Kismet di Bari

Eventi avversi. Così abbiamo preso l’abitudine di chiamare le manifestazioni estreme del cambiamento climatico. Non siamo preparati ad essi, ce ne sentiamo in balìa, abbandonati, incolpevoli figli di una matrigna che prima ci illude con novembri in spiaggia, e poi ci fustiga con frane e alluvioni.

“T’am sent?”, “Mi senti?” in romagnolo chiede la “Madre” del poemetto scenico del Teatro delle Albe, scritto da Marco Martinelli, diretto e interpretato da Ermanna Montanari, nel doppio ruolo di Madre e figlio. Sul palco anche Daniele Roccato, compositore e contrabbassista, e Stefano Ricci, pittore e illustratore. Lo spettacolo, che ha esordito non a caso a fine 2020, è co-prodotto da Ravenna Teatro in collaborazione con Primavera dei Teatri, e rientra nel cartellone “Bagliori” 2023-2024 del Teatro Kismet di Bari a cura di Teresa Ludovico.

“T’am sent?” urla la Madre contadina, dal fondo del pozzo dov’è caduta. La drammaturgia performativa riproduce tutta la claustrofobia del fondo del pozzo, con un’armonia perfetta tra gli stimoli scenici: il contrabbasso emette onde sonore che sembrano propagarsi in un’acqua primordiale; il rotondo mascherino che proietta i disegni che Stefano Ricci traccia a gessetto su rotondi cartoncini neri mostra la bocca del pozzo, unico punto di dialogo tra figlio e Madre; la voce di Montanari nasce con la voce del figlio, in una specie di linguaggio, a metà tra il delfico e la corte di Minosse, che sibila a fior di denti bestemmie in romagnolo e irrisioni verso una Madre improvvida verso se stessa.

Il problema principale sembra quello di tirare via la Madre dal pozzo, reperendo la tecnologia necessaria, anche una task force di uomini forzuti, perché dei braccianti immigrati che vivono nelle vicinanze non ci si può fidare. Ma il tempo passa, la Madre è sempre lì, e dei lampi preannunciano una tempesta che potrebbe colmare il pozzo e fare succedere l’irreparabile. Pur tuttavia, la Madre, con la sua parrucca candida, quasi sacrale, anzi, da progenitrice, sembra essere la meno preoccupata per il proprio destino. Degli scorpioni e dei topi malefici che il figlio vorrebbe sconfiggere non vi è traccia, anzi, vi è un’affascinante bisciolina, altra suggestione dalla Genesi, con cui la Madre si allea e si fa una sola carne, dal momento che la volta che si è fidata di Dio e del suo compagno il Paradiso è finito. È così che emerge la verità sulla caduta della Madre: il figlio, con tutta la sua disattenzione e fretta, in velocità ha fatto cadere giù la contadina che si era affacciata al pozzo, travolgendola come fosse il delicato sepalo di una calla. Il buio del pozzo, un grembo ancestrale, non fa più paura, anzi, è possibilmente il posto più sicuro in cui stare.

Chi è in pericolo? La Madre o l’umanità? Non è un caso che il poemetto sia diventato pièce in Romagna, una terra che sembrava felix oltre ogni misura, ma che negli ultimi quindici anni è stata funestata da sismi, frane, alluvioni. Dalle parti nostre si usa dire che “Una madre campa dieci figli, ma dieci figli non campano una madre”. Trasponendo questo concetto su Madre Terra, pensare che noi non sopravviviamo senza di lei, ma lei senza di noi vivrebbe lo stesso, forse anche meglio, ci può convincere a non buttarla più giù nel pozzo, senza un mezzo per ripararne le sorti: la tempesta, sia essa una pestilenza, una guerra, un evento avverso, ci coglierà, e non basterà tutta la tecnologia del mondo a salvarci.

Beatrice Zippo

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